giovedì 1 marzo 2018

Vindice Satta una poesia metafisica minimalista

Vindice Satta
una poesia metafisica minimalista
di Maurizio Virdis

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Poeta della conoscenza metafisica potrebbe esser defini-
to Vindice Satta, forse un poeta della linea montaliana di chi
subisce gli scorni di chi crede/ che la realtà sia quella che si
vede.

In colore d’estate grande
salivamo il monte
alla fonte di Solotti
che vince il sole.
Nel fondo verde della foresta
smarrivamo i passi
dicendo cose che non sono:
dicevamo il vero.

Questa composizione di Vindice può dirsi la cifra del suo
pensiero poetico.
L’ossimoro, apparente, che dire la verità è dire cose che
non sono, definisce il vero come ciò che è extra-reale, a-ogget-
tivo, e a-logico, e che si coglie nell’intrico, nel perdersi in una
foresta e nella sua malia naturale.
Ma certo, benché echi montaliani non manchino nella sua
opera poetica, la poesia di Vindice Satta, più che un distante
ragionare, è un’adesione coerente e lucida al dato sentimenta-
le intimo. Che non è però né si fa mai onda di piena. Anzi si fa
perplessità del dire: del dire proprio tale adesione. Non è la
poesia dell’ineffabile, ma semmai la poesia del limite: del limi-
te della parola; nella cognizione chiara dell’insufficienza di es-
sa: Non ho versi per la tua grazia/ ma parole immaginate, così in Sardegna poesia incipitaria della raccolta Una solitudine;
idea ribadita, nella stessa raccolta, in Terra: Non dirò una pa-
rola,/ debbo immaginare le stelle. Un dire in cui il legame fra
significato e significante è sempre problematico ed eccede il
codice condiviso. Una consapevolezza che si lega strettamen-
te a una ricerca di una misura extra esperienziale che sia al di
là dell’empiria e dell’esistenzialità stretta e immediata, per at-
tingere a una dimensione che non è solo interiore, né tanto
meno ridotta ad intimismo, ma che ha una significativa rile-
vanza poetico morale: ed è eminentemente riflessione della e
nella mente. E illuminazione intuitiva: pensiero nel varco dei
momenti. Un riflettere che poggia certo, ed anzi proprio, sul
dato dell’esistenza soggettiva, ma che la trapassa e la trascen-
de, dando luogo a una misura e a una dimensione, si diceva,
metafisica: non irreale, ma derealizzata; e costruita con gli
stessi mattoni di quel reale che viene scavalcato. La poesia di
Vindice Satta è quella che dice tale valico, tale trascendere,
che puntualizza il (dis)ancoramento di esso (d)alla dimensio-
ne d’esistenza. Lo stesso paesaggio, tanto presente nella sua
scrittura, si scarnifica e si denaturalizza, per diventare strania-
mento psichico e immagine fra iperreale e derealizzata, un
paesaggio che si alloca nell’attività che lo rielabora in forme
concettuali, più che sensoriali. Un paesaggio che ha dei toni
pittorici che si direbbe essere interposti fra Cosmè Tura, Car-
rà e De Chirico.
E al paesaggio è in genere affidata l’immagine della Sarde-
gna, da lui elaborata in mito ed in immagine metafisico-sim-
bolica; si veda Pastore (uSol) 1 , dove sull’erranza scabra del
pastore isolano egli proietta, simbolicamente, il proprio af-
fanno, in assenza di stabile e salvifica memoria, nel silente mu-
tismo anche dei morti:

Nessuna voce di nuovo canto,
l’ovile è chiuso lontano.
Il pastore ha tanche di povertà
e pietre d’affanno
nella polvere di lento gregge.
Un lentischio, un mirto
un’erica:
è grave andare senza meta,
i morti sono immobili.

Come immobili sono i pastori nuoresi di Nuoro (iGQ), sua
città di vita lieta, dove, nella prima sua età, visse felice/ nei len-
tischi intensi a stordire,/ nel cielo come un’alcova. Una Sarde-
gna memoriale, eminentemente, di cui egli ha ricordo fitto co-
me una lama, contro lo sradicamento che costituisce la sua es-
senziale perdurante contingenza di uomo; di un uomo il cui
più vero essere, ora perduto, sta e si proietta, egli dice, nel pas-
sato di giovani valenti,/ di madri sagge di consiglio, di uomini
che portano/ fatica come vanto, uomini che non hanno rim-
pianto perché solo chi non ha avuto gioia non ha rimpianto:
fra paesaggio fisico e paesaggio antropologico, psichico e del-
la memoria. Memorialità ribadita in Cala Gonone (iGQ), lon-
tano da cui egli ha vissuto anni [...] d’amore e d’ira. Una Sar-
degna madre dolceamara, come il suo amaro miele, frutto di
api che suggono nettare dalle pietre/ nella morte dei fiori, nel-
l’Isola dei mandorli (iGQ), metafora di sradicamento esisten-
ziale, dolce al ricordo, amara all’attualità dell’esistenza; ra-
gion per cui altro non resta che sognare la tanca che è madre,
nel cui silenzio solo si può udire la verità (La tanca, iGQ). Una
madre la cui vita è sempre stata per lui una prigione, uterina e
cagione di claustrofobia si direbbe, una madre che è stata una
notte che gli ha sempre chiuso il tempo, che ha vissuto in una
solitudine tale che da lei gli è stata impressa in stigma (Una so-
litudine, uSol). Una madre che, distratta dal dolore, lo lasciò,
pur con carezza, su una pietra che ora, nell’abbandono, sta
sopra di lui e lo schiaccia: e fu “il giorno qualunque” (Il giorno
qualunque, iGQ), quello che iniziò, anzi intitolò il suo canto.

1 1
Da qui in avanti si abbrevia con uSol la raccolta Una solitudine e con iGQ
la raccolta Il giorno qualunque.

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martedì 27 febbraio 2018

Maurizio Virdis
Geostorica sarda. 
Produzione letteraria nella e nelle lingue di Sardegna

Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology, and Literature (ISSN 2037-4569)

https:// rhesis.it/
Literature, 8.2: 17-27, 2017

Letteratura 8.2

Abstract
The question of a Sardinian literature and of a literary language begins to appear in the 16th century and is affirmed in the 18th. The 19th century shows a split, a schisis, in Sardinian intellectuality, which was divided between loyalty to the Sardinian national values and the new Italian nationality. This fracture is still unresolved, and also manifests itself in a diversified literary production: one in the Sardinian language, and another one in an Italian mixed with Sardinian, so typical today of Sardinian nouvelle vague. The two “tribes” often look at each other with mutual suspicion, without seeking a fruitful connection.
Key words – Sardinia; the language question; Sardinian literature; literatures of Sardinia

La questione di una letteratura e di una lingua letteraria sarda comincia ad apparire nel XVI secolo, e si afferma nel secolo XVIII. L’Ottocento mostra una scissione, una schisi, all’interno dell’intellettualità sarda, che si divide fra la fedeltà ai valori nazionali sardi e la nuova nazionalità italiana. Frattura tutt’oggi irrisolta, che si manifesta anche in una diversificata produzione letteraria: in lingua sarda, e in un Italiano mescidato di sardo, così proprio della nouvelle vague isolana odierna. Le due “tribù” spesso si guardano con reciproco sospetto, senza cercare un fruttuoso punto d’incontro.
Parole chiave – Sardegna: questione della lingua; letteratura sarda; letterature di Sardegna

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Scrivere in lingua sarda oggigiorno può essere, a seconda dei casi o dello sguardo con cui si voglia guardare al fenomeno, un’operazione snob, oppure un atto di pervicace ostinazione; un atteggiamento retrò, o, al contrario, un gesto di coraggio. E forse tutte, o più d’una di queste cose insieme.
Adire alla “genuinità”, più profonda, di una cultura, ancorché “dialettale”? Marcare una differenziazione identitaria? Tenere teso il filo della nazionalità (qualunque connotazione, temporale/intemporale/atemporale, storica o astorica, si voglia dare alla parola)? Ma è comunque una percezione e una nozione – quella di nazione – che in Sardegna data almeno dal XVIII secolo, seppure, e ce ne sarebbe pure il tanto, non si voglia risalire indietro al XVI secolo.
Scrivere in Sardo, comunque, significa innanzitutto stabilire un rapporto, sempre complicato, con la lingua dominante. Con la sua semantica e la sua semiotica, con le sue ideologie. E significa necessariamente fare i conti con la storia.
La questione si estende su di un arco di tempo di alquanto ampia profondità edestensione: ed è sul metro di questa estensione che tale problema e tale problematica vanno letti e compresi. Ed è una questione, questa, che ha una lunga vicenda dietro di sé, che non si pone dunque nel puro oggi, ma che costeggia la storia, anche europea.
Non è dunque un’emergenza della cultura contemporanea, ma semmai una riemergenza, in tempi e in termini nuovi, di una storia antica, accidentata e radicata. È il riproporsi di una questione irrisolta.
Ecco allora: è da questa irrisoluzione, è a partire da essa che si deve guardare e cercare di comprendere il senso della produzione in lingua sarda e il suo fondamento.
Che va compreso in un quadro specifico e particolare quale è quello odierno, quello della situazione di attualità storica in cui ci troviamo; e in cui le istanze plurivoche dell’attualità rendono il quadro complesso e intricato. Le istanze identitarie, intendo dire. Il tutto in un quadro di complessa geografia culturale.
La cultura e la socialità sarda sono state e sono sottoposte a spinte diverse e
contrastanti, non è certo oggi la prima volta che ciò capita. Quanto meno l’epoca spagnola, nella sua fase matura, sottoponeva la società sarda ad una scissione intima e costitutiva, fra desiderio di assimilazione omologante ed emergenza della propria specificità, anche sotto il profilo linguistico e letterario. E già dal XVI secolo vedeva per la prima volta la luce, nell’Isola, una produzione letteraria in lingua sarda, accanto a una produzione, pure di una qualche consistenza, in Spagnolo, oltre che una riflessione
umanistico-scientifica sulla Sardegna (mi limito a citare i nomi di Francesco Fara e di Girolamo Araolla). Tale situazione di tensione, di duplicità e di scissione non fu certo né speciale né unica, tutt’altro: così come avviene laddove vi sia stato e vi sia un rapporto di potere asimmetrico e sbilanciato; e allorché vi sia e vi sia stato, come in quell’epoca accadde ed oggi si ripropone, un radicamento nel “sé”, collettivo e culturale, ed una elaborazione storica interna che autorifletteva su questo “sé” e sul suo
esser-ci: allora entro una geografia politica consistente in una costellazione federata di regni, ciascuno con le proprie istituzioni, e tutti riuniti sotto la corona e la regia del sovrano di Spagna, costellazione entro la quale l’aristocrazia locale ambiva ad acquisire status anche attraverso la promozione della cultura locale, o direi meglio ‘propria’, da accostare a quella iberica in un rapporto di parità, e di pari dignità con ess; ed oggi
all’interno dello Stato italiano, in una dimensione e in una prospettiva di plurilinguismo nazionale ed europeo.


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Una costante pertanto. Ma il ripresentarsi nel tempo di una tale costante, porta, come ovvio, differenza, perché l’oggi non è dunque l’ieri, evidentemente. Diversa è la situazione storica, diversa la situazione e la collocazione della Sardegna nella geografia culturale europea, e forse magari planetaria.
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Emozioni dominate. Sentimenti liberati. Gauvain nell’Atre Périlleux

Maurizio Virdis
Emozioni dominate. Sentimenti liberati.
Gauvain nell’Atre Périlleux
Critica del testo, XIX, 3 (2016)

ABSTRACT L’articolo intende fare il punto sul sistema che informa la rappresentazione
della sfera emotiva dell’Atre Périlleux, romanzo francese arturiano, post-chrestieniano,
del XIII secolo1. Si tratta di un romanzo in parte parodico, in parte – e a partire
da una acuta e incisiva critica della tradizione cortese pregressa – ricostruttivo
di un complesso di valori sociali e morali che vengono proposti da una “nuova”,
e comunque differente emittenza, in forma di allegoria più o meno celata o sottesa.
Pertanto sarà interessante indagare e analizzare come la rappresentazione delle
emozioni, proposta, a livello primario, secondo i canoni più tradizionalmente fruibili,
sia sottilmente piegata a una critica al fine della costituzione di una più solida
razionalità che governi le emozioni stesse, che non vengono abolite o represse, ma
che si trasformano in un sentimento di interiorità sul quale si costruisce il sé.

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Buona parte del romanzo L’Atre Périlleux, anonimo post-chrestieniano
del XIII secolo,1 sembra centrato sulla rappresentazione delle emozioni dominate da parte del protagonista Gauvain; sulla
freddezza imperturbabile di costui davanti agli eventi che ci si aspetterebbe
inducessero alla manifestazione di passioni o comunque di
reazioni d’impulso. Un agire contenuto, un comportamento, quello
del nostro eroe, improntato a uno spirito un tantino britannico, mentre
il pubblico si attenderebbe, in più di una circostanza, reazioni
emotive anche forti da parte di lui. Ma l’emozione agisce in lui sottostantemente,
al di là delle apparenze, e fa ritorno come successiva
resipiscenza o come intuizione che stimola l’agire: come sentimento
interiorizzato. Dal punto di vista emozionale, questo nostro romanzo
è costruito e gioca entro l’opposizione fra, da un lato, il protagoni-
sta che in maniera così trattenuta si comporta, e la manifestazione
dell’emotività, dall’altro lato, dei vari personaggi che egli incontra
e con cui si confronta.
Raffrenare le emozioni: è questa dunque la cifra dell’Atre
Périlleux. Soprattutto dalla parte del protagonista, Gauvain: l’imperturbabile.
Tale imperturbabilità va pur tuttavia gestita e portata
a significato. L’emozionalità da Gauvain tenuta a freno è interiorizzata,
ed appena accennata nel discorso narrativo, e lasciata pertanto
all’intuizione decrittante del lettore. Gauvain, da parte sua, deve
guadagnare a poco a poco l’appercezione del proprio sentire e, a
partire da qui, trasformare in coscienza acquisita, e per via intuitiva
interiorizzata, la maschera dell’impassibilità: quell’habitus proprio
di ogni uomo dell’élite cortese che deve avere fra le proprie virtù
quella della mesure, e del contenimento delle manifestazioni emotive;
una virtù che è però in lui stereotipicamente costruita e meccanicamente
posta in agire.

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1. L’Atre Périlleux, romanzo arturiano in versi databile intorno alla metà del
XIII secolo, ci è stato tramandato da tre manoscritti : B.N. fr. 2168, (ff. 1r-45r),
della fine del XIII secolo = N1; B.N. fr. 1433 (ff. 1r-60r) del XIII secolo = N2;
Chantilly 472 (ff. 57r-77v) della fine del XIII secolo = A (le sigle dei manoscritti
sono quelle dell’edizione di Brian Woledge). Il romanzo è stato edito da B. Woledge:
L’Atre Périlleux. Roman de la Table Ronde, Paris, Champion, 1936. Sulla
tradizione manoscritta si veda Id., L’Atre Périlleux. Études sur les manuscrits, la
langue et l’importance littéraire du poème. Avec un spécimen du text, Paris, Droz,
1930; M. Virdis, Per l’edizione dell’‘Atre Périlleux’, in «La parola del testo», XI
(2005), pp. 247-283. Brian Woledge ritiene spurio l’episodio della Rouge Cité,
tràdito dal solo manoscritto N2, che il filologo pubblica separatamente, in appendice
alla succitata edizione del testo; più di recente M. Maulu, La Rouge Chité: l’episodio
ritrovato dell’Atre Périlleux. Con edizione critica, in «Annali della Facoltà
di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari», n.s., XXI, vol. LVIII (2004), pp.
175-241, ha convincentemente dimostrato che tale episodio è parte integrante del
testo. Nei riferimenti e nelle citazioni di tale episodio seguirò la numerazione dei
versi facendoli precedere da asterisco, secondo il testo dell’edizione Woledge. Fra
gli studi ricorderò: S. Atanossov, Le Corps mis en morceau dans l’Atre perilleux:
illusion, sorcellerie, magie, in AA. VV., Magie et illusion au Moyen Âge, Aix-en-
Provence, Université de Provence, 1999, pp. 11-19; K. Busby, Gauvain in the Old
French Litterature, Amsterdam, Rodopi, 1980; A. Combes, Sens et abolition de la
violence dans ‘L’Atre Périlleux’, in AA. VV., La Violence dans le monde médiéval,
Aix-en-Provence, Centre Univ. d’Études et de Recherches Médievales d’Aix, 1994,
pp. 151-164; A. Combes, ‘L’Atre Périlleux’. Cénotaphe pour un héros retrouvé, in
«Romania», CXIII (1992-1995), pp. 140-174; S. López Martínez-Morás, Gauvain,
son identité et ses adversaires dans ‘L’Atre Périlleux’, in Homenaxe ó profesor
Camilo Flores, II, Literaturas especificas, a c. di X. L. Couceiro et al., Santiago
de Compostela, Universidade, Servicio de Publicaciónes e Intercambio Científico,
1999, pp. 452-470; L. Morin, Le soi et le double dans ‘L’Atre Périlleux’, in «Études
françaises», XXXII (1996), pp. 117-128; M. Virdis, Percorsi e metodi del tardo
romanzo cortese, in «Critica del testo», VIII (2005), pp. 629-642; Id., Gauvain e il
corpo smembrato: allegorie nell’‘Atre Perilleux’, in «Carte romanze», I (2013), 1,
pp. 131-156; L. J. Walters, Resurrecting Gauvain in L’Atre périlleux and the Middle
Dutch Walewein, in Por le soie amisté. Essays in Honor of Norris L. Lacy, Amsterdam,
Rodopi, 2000, pp. 509-537; F. Wolfzettel, Arthurian adventure or quixotic
struggle for life, in An Arthurian Tapestry. Essays in memory of Lewis Thorpe, a
c. di K. Varty, Glasgow, University of Glasgow, 1981, pp. 260-274. Sui rapporti
fra L’Atre Périlleux e Hunbaut, romanzi accomunati da diversi motivi narrativi
e da una medesima ideologia sottostante, ed entrambi tramandati dal manoscritto
Chantilly Condé 472, si veda P. Serra, ‘Hunbaut’: il percorso allegorico di un romanzo
parodico, in «Rhesis. International Journal of Linguistics, Philology and
Literature», 3 (2012), 2, pp. 143-183 (il contributo è consultabile in rete al sito web
http://www.diplist.it/rhesis/articoli/rhesis_7_2_Serra._Definitivo.pdf). Le citazioni
dell’Atre Périlleux, riportate nel corso di questo articolo, sono tratte dall’edizione
B. Woledge.

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giovedì 2 febbraio 2017

ELLO, I CLITICI E LE PERIFERIE IN SARDO
in Itinerando
Senza confini “itinerando” dalla preistoria ad oggi. Studi in ricordo di Roberto Coroneo
a cura di Rossana Martorelli, Perugia, Marlocchi, 2015. ISBN: 978-88-6074-724-2. Vol I.3 , pp. 1733-1745.



Maurizio Virdis
Università degli Studi di Cagliari
Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica
virdis@unica.it



Riassunto. La lingua sarda sfrutta assai le posizioni periferiche della frase, sia
a destra che a sinistra; ciò eminentemente per scopi pragmatici e/o effetti di senso, che
connettono una certa catena frastica a un contesto (il)locutivo espresso o presupposto o da
far presupporre. ‘Ello’ è uno degli elementi di questo tipo, esso ha funzioni diverse.
Alla periferia destra troviamo i complementi del verbo talvolta anticipati mediante dei
clitici: questa anticipazione marginalizza sintatticamente tali complementi in funzione di
topic o di focus. Anche la posizione del Soggetto, in una lingua pro-drop come il Sardo, può
essere interessata da processi di defocalizzazione, e il Soggetto può essere marginalizzato a
destra, quale un topic-coda.
Parole chiave: sintassi sarda, periferie, ‘ello’.

Abstract. The Sardinian language frequently exploits the peripheral positions of the
sentence, both on the right and the left, for pragmatic purposes; in this way a phrastic chain
is connected to a wider (il)locutional context: which may be expressed, or assumed, or to
be assumed. One of such elements, in the left periphery, is ‘ello’, which may have different
functions and even different hints and undertones.
At the right periphery, the Complements of the Verb are often anticipated by clitics; this
anticipation marginalizes Verb Complements, giving them the function of a topic or a focus.
Even the position of the Subject as well, in a pro-drop language as Sardinian, may be affected
by defocusing processes, so that the Subject can be marginalized to the right, as a topic-tail,
or an afterthought.
Keywords: Sardinian syntax, Periphery, ‘ello’.

La periferia sinistra
Il Sardo è una lingua che dà ampio spazio all’utilizzo delle periferie della frase,
sia destra che sinistra. Oltre ai ben noti fenomeni di dislocazione, diffusi in
varie lingue neolatine, è ormai noto come pure in Sardo siano presenti lar-
gamente fenomeni di fronting, consistenti nello spostamento di costituenti
frasali in SpecComp con valore pragmatico di focalizzazione, anche non con-
trastiva. Hanno dato contributi di rilievo nello studio di tale fenomeno Jones,
1993; Mensching & Remberger, 2010 e Cruschina, 2010.
Molto strettamente legata a questo fenomeno, da un punto di vista strutturale,
è la funzione pragmatica ed il funzionamento sintattico della particella a che,
proposizioni interrogative; tale particella certamente occupa lo stesso nodo strutturale, SpecComp,
dell’elemento focalizzato o dell’elemento WH; infatti a è incompatibile con la
presenza di un pronome interrogativo, o di un participio passato o gerundio
di un verbo composto, o ancora di un predicato, che siano stati mossi, dalla
loro propria posizione non marcata, in SpecComp: *a cant’er mannu?, *a bén-
niu est?, *a ruju fit? (ma invece: cant’er mannu? (quant’è grande?), bénniu
est?(è venuto?), ruju fit?(era rosso?)). Si dà dunque la reciproca incompatibi-
lità di occupare lo SpecComp: soltanto un costituente, e non più d’uno, può
esser mosso sotto tale nodo (cfr. Jones, 1993).
Oltre tutto ciò, oltre questo complesso di fenomeni, che oramai prende una
ben definita fisionomia e spiegazione, altri elementi occupano la periferia si-
nistra della frase sarda: si tratta degli elementi ello e già. Entrambi sono in-
troduttori di frase: il primo, ello, è introduttore di frase interrogativa (ma, ve-
dremo poi, non soltanto, in quanto esso introduce altro tipo specifico di frase
di cui si dirà in seguito), il secondo, già, introduce frasi affermative con forte
valore assertivo e asseverativo (già est beru chi est aicci = è proprio così; già
est andau = certo che è andato). Entrambi, pur obbedendo a regole strutturali
differenti, svolgono la funzione pragmatica di connettori, in quanto collegano
la frase – interrogativa o assertiva – che essi introducono, a un contesto pre-
cedente, esplicito o presupposto; oppure, altresì, creano, o contribuiscono a

creare, un contesto di presupposizione o di ‘datità’, di ‘già noto’.

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Cronodiatopia sarda


Cronodiatopia sarda
Maurizio V irdis
Università degli Studi di Cagliari

in Studi linguistici in onore di Lorenzo Massobrio
a cura di Federica Cugno, Laura Mantovani, Matteo Rivoira, Maria Sabrina Specchia. Torino, Atlante Linguistico Italiano, 2014, pp. 1097- 1110



È ben noto che il dominio linguistico del Sardo ha una fondamentale divisione
diatopica che divide il suo spazio geografico in due metà, l’una settentrionale, l’altra
meridionale.
È chiaro ed ovvio che le isoglosse relative ai duplici esiti delle due macroaree,
come in ogni situazione di diatopia, non coincidono; esse tuttavia, addensandosi
tendenzialmente al centro dell’Isola, tengono comunque un andamento est-ovest che
divide le due metà dello spazio in un’area settentrionale e in un’area meridionale.
Chiameremo le due macroaree, secondo tradizione e per brevità, Campidanese la
meridionale e Logudorese la settentrionale, prescindendo dalla loro coincidenza ri-
spetto alle regioni geografiche e storiche da cui prendono nome: il Campidano e il
Logudoro.
Le ragioni tradizionalmente addotte per spiegare tale bipartizione sono ben anti-
che e possono farsi risalire a posizioni prescientifiche o protoscientifiche relative alla
dialettologia sarda. Su tali ragioni ha pesato, e ancora pesa, il pregiudizio ‘retorico’
consistente nella presunta maggior vicinanza del Logudorese al Latino. E in effetti
se guardiamo a determinate strutture fonetiche, con ricadute morfologiche, la cosa
potrebbe non presentare dubbi: ben più conservativo dovrebbe apparire il Logudo-
rese che, p. es., mantiene più salde le vocali atone, non presenta forme metatetiche
aberranti”, né il fenomeno della prostesi vocalica davanti alla R-. D’altra parte, e per
l’inverso, il Campidanese presenta la palatalizzazione delle consonanti velari davanti
a vocali anteriori, e l’innalzamento delle vocali medie originarie latine in sillaba finale.
Si tace in genere, invece, almeno nella manualistica o nelle sintesi dialettologiche del
Sardo, sui fatti rispetto ai quali sono i dialetti settentrionali a risultare maggiormente
innovativi rispetto ai meridionali: si veda per esempio l’evoluzione QU > b(b), o CJ/
TJ > th > t(θ). Né in genere si prendono in considerazione fatti quali il fenomeno
della prostesi vocalica di i- davanti al nesso S + consonante , oppure l’evoluzione
specifica, in ciascuna delle due macroaree, della -L- latina intervocalica, o quella del
pronome ILLUM, quale pronome clitico.
Lasciamo ovviamente da parte i pregiudizi retorici, che hanno comunque succes-
sivamente influito, direttamente o indirettamente, sulle riflessioni scientifiche succes-
1Maurizio Virdis
sive. E lasciamo da parte pure il fatto che il codice linguistico usato nella produzione
letteraria sarda è stato a lungo nel passato (e in certa misura e in certi ambiti, ancora
è) un codice assai spesso basato sul Logudorese. Cosa che ha avuto pur essa il suo
peso, dovuta com’è a una serie di ragioni storico culturali della Sardegna: in specifico
al fatto che le origini e la successiva riflessione, nonché parte cospicua della pratica e
della produzione di scritture letterarie in Sardegna si pongono nella regione del Logu-
doro (l’Araolla in primis, poi, p. es., Luca Cubeddu e tanti altri fino ad Antioco Casula,
e successivamente le riflessioni del Madao e dello Spano, oltre che tantissimi poeti),
ciò che ha ovviamente determinato la scelta del Logudorese quale base del codice
letterario. Scelta assai spesso giustificata a posteriori col fatto che, come si diceva, il
Logudorese avrebbe mostrato una maggior vicinanza col Latino. Il che ha poi inge-
nerato l’idea ingenua e ancora alquanto diffusa, che il Logudorese sia il ‘vero’ Sardo.
Lasciamo dunque da parte tutto ciò. Le cose vanno viste ovviamente con mag-
gior duttilità e non in una semplice ottica dicotomica e contrastiva che piattamente
opponga, senza alcun rilievo storico e storico-linguistico, conservazione a innova-
zione, soprattutto in una dimensione delicata quale quella diacronico-diatopica della
dialettologia. Anche perché lo stesso concetto di conservazione o di innovazione
può essere spesso labile o addirittura ambiguo. Infatti se non ci limitiamo in maniera
restrittiva alla dimensione diacronica, ma consideriamo quest’ultima anche in co-
relazione con la dimensione diastratica/diafasica, può ben essere possibile, come
ovvio, che una variante diacronicamente più antica possa essere, in una determinata
area, adottata in un momento relativamente più recente, mentre un dato linguistico
frutto di un processo evolutivo relativamente recenziore, può acclimatarsi, in un’altra
o nella stessa determinata area, in un momento relativamente più antico, rispetto alla
scelta, operata più tardi, magari in una diversa area, di un tratto in sé maggiormente
conservativo ma selezionato o impostosi solo seriormente. È insomma, ed ovvia-
mente, il gioco del prestigio delle diverse varianti sincronicamente compresenti a
spesso determinare, sull’asse diacronico, la variazione diatopica. Inoltre, almeno per
il caso che ci riguarda — ma credo che la cosa possa certo valere anche altrove —
esiti a prima vista ‘aberranti’ o eccentrici rispetto alla base di partenza latina, e quindi
in prima istanza classificabili come innovazioni, possono avere alla base forme ante-
riori, rispetto ad esiti che, a prima vista maggiormente regolari e prossimi alla base
di partenza, possono essere invece frutto di innovazione, o di una selezione seriore
in senso conservativo.
È necessario quindi guardare meglio, con maggiore attenzione e con atteggia-
mento di maggior flessibilità ai fenomeni di variazione diatopica del dominio della

lingua sarda.


mercoledì 22 ottobre 2014

Matteo Madao e la questione della lingua sarda




Va riconosciuta a Matteo Madao[1] la proposizione e la messa in campo della questione della lingua sarda in senso moderno, con una acutezza ed anche con un coraggio, oltre che con una lucidità e una passione, che forse mai più dopo di lui hanno trovato pari riscontro.
Le sue posizioni, sullo scorcio degli ultimi decenni del secolo XVIII, presentano e dimostrano una capacità di stare al passo coi tempi, soprattutto quando si pensi che il suo discorrere sulla questione linguistica si mostra del tutto in linea con le istanze dell’epoca e con le proposte culturali coeve.
Se pure è vero che egli è in larga misura tributario di concezioni e cognizioni linguistiche talvolta alquanto attardate, ma cionondimeno ampie, tributarie della cultura primo settecentesca se non pure seicentesca (fra gli studiosi di lingue da lui citati, a parte i classici latini, il Covarruvia, il Du Cange, Charles Rollin, Pietro Bembo, Francesco Redi, Anton Maria Salvini, e soprattutto Ludovico Antonio Muratori), vissute pure nell’angustia dell’isola, fuori dalla quale egli non aveva mai in vita sua messo piede, ciò che primariamente spicca in senso non trascurabilmente moderno, nella sua posizione propositiva, è lo stabilirsi per la prima volta in Sardegna del nesso lingua-nazione, in linea con l’affermarsi delle aspirazioni nazionali dei popoli europei, e in un periodo storico che anche in Sardegna si presenta denso di riflessioni e di eventi e gravido di futuro, alla vigilia del cosiddetto triennio rivoluzionario. In lui spicca la modernità nella considerazione sulla lingua (e sulle lingue) in seno alla società e alla sua dinamica. E se anche il suo proposito di ripulire la lingua in senso classico può apparire, come ebbe a dire Girolamo Sotgiu, utopistico e magari antiquato, tuttavia è certo attuale il valore della lingua quale fattore di civiltà in senso non più solo erudito, ma progressivo.
Le posizioni del Madao non partono certo dal nulla: hanno infatti alle spalle quanto meno la riflessione, la pratica e l’opera poetica di Gerolamo Araolla, che già, sul finire del XVI secolo, non solo proponeva, ma anche additava ed attuava, con ragione e vigore, la lingua sarda come lingua letteraria: con risultati di elaborazione e di eloquio letterario più che ragguardevoli, e certamente raffinati; ed anzi con una eccellente riflessione estetica e di poetica, al pari della conoscenza ch’egli possedeva dell’attività, della produzione e della maniera letteraria, europea, a lui contemporanea. Per l’Araolla si trattava però ancora ‘soltanto’ di letteratura, pur nella coscienza di quanto, soprattutto all’epoca, la letteratura potesse costituire non soltanto il blasone, ma anche la stoffa e la sostanza della qualità di un organismo sociale, che già, benché ancora auroralmente, cercava i propri connotati identitari, quanto meno nella costruzione di una élite colta nelle proprie specifiche fattezze. E in un’epoca in cui la Sardegna, politicamente organizzata nel Regnum Sardiniae (all’interno della confederazione dei regni iberci), andava scoprendo o forse meglio iniziava a costruire se stessa come soggetto storico e culturale sulla scena europea.  Anche se mancava all’Araolla qualunque ragionamento metalinguistico, benché non fosse assente in lui una chiarezza metapoetica.
Tentativo che a suo modo fruttificò. E non va certo, a questo proposito, dimenticato Gian Matteo Garipa (che visse a cavaliere dei secoli XVI e XVII, nacque a Orgosolo, resse le parrocchie di Perdasdefogu, di Baunei e di Triei, ed ebbe modo di soggiornare a Roma), il quale vedeva il sardo quale lingua più che degna in quanto simile al Latino. Così, nel Prologo al lettore, egli dice di aver voluto tradurre in Sardo, nel 1627, il Leggendario delle Santissime Vergini (Roma, 1620), col titolo di Legendariu de sas Santas Virgines et Martires de Iesu Christu a sas honestas et virtuosas iuuvenes de Baonei & Triei:

pro esser sa limba Sarda tantu bona, quanto participat dessa Latina, qui nexuna de quantas limbas si platican est tantu parente assa Latina formale quantu sa Sarda, pro tenner sa majore parte dessos vocabulos usuales, & quotidianos dessos quales si seruit, ò latinos veros, e formales, ò latinos corruptos, cun sa differencia specifica qui la differencia de totas sas ateras. Pro su quale si sa limba Italiana si preciat tantu de bona, & tenet su primu logu inter totas sas linguas vulgares pro esser meda imitadore de sa Latina, non si diat preciare minus sa limba Sarda pusti non solu est parente de sa Latina, pero ancora sa majore parte est latina comente sa isperiencia lu mostrat (à benes qui cun sa mala pronunciatione, e malu iscrier, sos naturales la apan fata barbara, e qui sia tenta pro tale dessos furisteris).
Et quando cussu non esseret, est suficiente motiuu pro iscrier in Sardu, vider qui totas sas nationes iscrien, & istampan libros in sas proprias limbas naturales in soro, preciandesi de tenner historias, & materias morales iscritas in limba vulgare. Pro qui totus si potant de cuddas aprofetare.[2]

Anche in lui, come già nell’Araolla e più tardi nel Madao, v’è il bisogno culturale di parlare e impiegare la lingua sarda, naturale e ‘nazionale’, e la necessità di dirozzarla, di sottrarla alla ‘barbarie’ cui la riducono i parlanti “naturales”, che con ciò danno esca ai forestieri di giudicarla, appunto, barbara. Ed in più aggiunge il Garipa, rispetto all’Araolla e anticipando il Madao, che la lingua sarda trova la sua dignità e il suo pregio, per esser essa prossima al latino.

Né certo erano assenti alla riflessione del Madao le proposizioni del Muratori riguardo alla esperienza storico-linguistica della Sardegna medievale e alla precocità dell’impiego del volgare sardo rispetto a quello italiano:

non credo che si possa dubitare che i Corsi e Sardi prima degl’Italiani cominciassero a valersi della lor lingua volgare negli atti pubblici, o che nei Latini frammischiassero molte voci e forme di dire volgari. Però sull’esempio suddetto anche la lingua volgare Italiana, che fino al secolo XIII era stata solamente in bocca degli uomini, cominciò in quello stesso secolo a farsi vedere ne’ versi de’ poeti, nelle lettere, ne’ libri, e in altre memorie[3].

Anche se certo l’intuito del Muratori era ben superiore a quello del Madao; si consideri quanto segue:

Certamente nella loquela del volgo, e particolarmente de’ servi nati fuor di Roma, si truovavano non poche storture; ma è anche probabile che gli stessi Romani nobili e Letterati non pronunziassero nel quotidiano linguaggio le voci come le scrivevano. [...] E però non è da stupire se nelle antiche iscrizioni spezialmente del basso popolo si truovano voci scorrette, parte delle quali nondimeno sono da attribuire agl’ignoranti marmorai. […] Pure chieggo io: s’ha egli forse da credere che ne’ popoli vinti insieme si estinguessero affatto le primitive loro lingue? Chi lo può credere? Non era questo assai facile. Lo stesso Agostino attesta che fino a’ suoi tempi durava nell’Affrica la lingua Punica. Ne’ tribunali bensì e negli atti pubblici per tutte le città del Romano Imperio si usava la lingua Latina, e particolarmenle la parlavano gli uomini delle colonie colà dedotte da Roma. Altrettanto si fa oggidì ne’ paesi dell’America o dell’Asia, dove signoreggiano i Re di Spagna e Portogallo. Anzi si pratica anche in Italia, dove secondo la Gramatica gli atti pubblici e le prediche sogliono stendersi in buon linguaggio, mentre il popolo seguita ad usare il dialetto proprio di ogni città o provincia, che è differente dal parlare dei Dotti. Però non si dee credere tolta dai Romani la lor lingua nativa ai suggellati popoli; ed è troppo verisimile che per lungo tempo durassero i loro primitivi linguaggi, e che anche coll’andare de’ tempi si mantenessero presso il volgo molti vocaboli e forme di parlare differenti dal Latino idioma [...] Ma quello che merita speciale attenzione, si è l’avere San Girolamo scritto, come di sopra vedemmo: Ipsa Latinitas et regionibus quotidie mutabatur, et tempore: parole indicanti che la lingua Latina avea già provato delle mutazioni, e quotidianamente si andava alterando. [...] Abbiamo questa obbigazione principalmente agli Scrittori Fiorentini, che valendosi della bellezza del proprio lor dialetto, trassero essa nostra lingua a quella dignità ed onore che ritien tuttavia per l’Europa. Ma forse verran tempi che anch’essa s’invecchierà e cadrà in rovina; imperocché cosa v’ha di stabile e durevole nelle fluttuanti cose de’ mortali, e massimamente ne’ linguaggi? Ci sta davanti il funerale della lingua Greca e Latina: miglior destino non s’ha sempre da sperare alla nostra.[4]

e non si potrà non cogliere come il Muratori avesse una solida cognizione e deciso intuito della dinamica linguistica, della sua dialettica sociale (distinzione fra latino grammaticale e scritto da un lato e latino parlato e volgare dall’altro), dell’apporto di ciò che oggi chiamiamo sostrato (o adstrato) linguistico prelatino, della ciclicità delle fortune di una lingua. Il Madao invero 

attesta l’attardarsi, in un’area culturale periferica, delle teorie sulle origini storiche dei volgari e sui loro rapporti con la latinità che avevano dominato il dibattito linguistico in Francia e in Italia nel Cinquecento e nel Seicento. Le linee portanti delle considerazioni teoriche e delle concrete procedure etimologizzanti messe in atto si ispirano infatti ad alcuni dei rappresentanti più autorevoli delle erudite ricerche sulle origini dei volgari, condotte empiricamente sul piano della comparazione e della ricostruzione etimologica, e finalizzate alla loro nobilitazione, attraverso l’individuazione di derivazioni illustri dal latino, dal greco, ma anche da lontane lingue di cultura.[5]

E infatti, a parte qualche caso felice oppure ovvio, difficilmente il Madao azzecca le etimologie delle voci lessicali sarde, e le etimologie da lui proposte, alla luce dell’ oggi, fanno, magari benevolmente, sorridere.

A partire comunque dalle considerazioni muratoriane, certamente il Madao portava la sua intenzione verso posizioni marcatamente nazionalitarie, assunte con una forte valenza. Si legga per esempio l’allocuzione al lettore del Ripulimento del Madao:

La lingua della Sarda nostra nazione, comecché venerabile per la sua antichità, pregevole per l’ottimo fondo de’ suoi dialetti, elegante, per le bellezze che aduna delle altre più nobili, eccellente per la sua analogia colla Greca, e colla Latina, e non solo giovevole, ma eziandio necessaria alla privata, e pubblica società de’ nostri compatrioti, e concittadini, giacque in somma dimenticanza in fino al dì d’oggi, dagli stessi abbandonata come incolta, e dagli stranieri negletta come inutile. […] troppo mi cuoceva, e consumava sul vedere già messo non che in disistima solamente, ma anche in aperto dispregio il natìo linguaggio, ch’è il più sensibile vincolo del politico corpo de’ nazionali[6].

E ancora, e più significativamente:

Tra’ Sardi v’ha uno stretto vincolo di società, e un intima unione, che non si può violare. Come la Sardegna è la comun madre de’ Sardi; così veruno di noi è nato per se solo, ma con l’intrinseca relazione a ciascuno de’ nostri compatriotti; di modo che ogn’individuo diviene a titolo di patriottismo comune a tutti […]. In virtù di questa nostra società, non che tutte le nostre famiglie solamente, ma inoltre tutt’i nostri paesi, villaggi siano, o città formano una comunità di Sarda gente, di tanti cittadini composta, quanto siamo i Sardi, i quali diretti viviamo sotto le stesse leggi da un Sovrano, e tra noi formiamo non solo una intera Sarda nazione, ma anche una sola città, e un sol politico corpo di repubblica […]. Ora di quest’ampia città, e di questo gran corpo di repubblica il più immediato vincolo, e il più a proposito per unire tante membra, e tant’individui, quanti sono i concittadini d’ogn’estrazione, non è altro, dice Tullio, fuorchè la patria lingua de’ medesimi: Propior est ejusdem lingua, qua maxime conjuguntur (b) Cic. I.1 de Offic.). … Dunque quanto solleciti esser dobbiamo di fomentare, e promuovere lo spirito di politica società tra noi medesimi; altrettanto dobbiam esserlo di coltivar industriosamente la patria lingua Sarda, che n’è il vincolo.[7]

La lingua dunque è il vincolo che tiene la nazione, che concretamente la fa, la costituisce: in quanto è il vincolo “più immediato e il più a proposito”, per unire le membra altrimenti disgregate della società, della ‘repubblica’, della “sarda nazione”.  Il discorso, come è evidente, non è più retorico, né prettamente elitario-letterario, ma è prettamente sociale e politico: la lingua aggrega e amalgama ciò che peraltro è e rimane disgregato; la lingua non è un elemento egualitario, le differenze sociali restano; essa però è un cemento che fa corpo; che dà vita ad un organismo strutturato e individuato: quale è la nazione. E nel XVIII secolo sardo il concetto di ‘nazione’, e la coscienza, politica, che la Sardegna costituisca una nazione, si va affermando; anche se va detto che, all’epoca, nazione non coincide con stato, o almeno non nel senso dello stato moderno post-ottocentesco. La Sardegna è una nazione che ‘con-corre’, al pari degli altri stati di terraferma, a  formare il ‘policentrico’ stato sabaudo, senza che vi sia alcun rapporto di subordinazione; essa mantiene i propri organismi statali, la propria giurisdizione, il regolamento suo proprio. D’altra parte

La società sarda di fine Settecento aveva perduto l’omogeneità e l’immobilità che l’avevano caratterizzata nel passato anche recente. […] Nelle città, soprattutto a Cagliari, si erano formati strati di borghesia, in parte legati quanto all’origine della loro ricchezza, ai signori feudali – si trattava in particolare di avvocati notai e procuratori – e in parte arricchitasi con i commerci, specie quello del grano. Particolarmente folto era inoltre nelle città, soprattutto a Cagliari e a Sassari, il ceto degli artigiani e dei manovali.[8]

 E dunque l’intellettualità sarda si formava, agiva e pensava all’interno di questi fermenti nuovi e di questa rinnovata situazione sociale, in parte innescata pure dallo stesso riformismo sabaudo, e dall’azione riformatrice attuata dal Bogino nella seconda metà del secolo, che comportava anche la riforma e la rinascita delle due Università isolane:

È un fatto che la coscienza della diversità, dell’essere nazione, se così è possibile esprimersi, pur con i limiti che questa espressione poteva avere nel ‘700, proprio dall’approdo impetuoso della cultura italiana che giungeva nell’isola tramite il Piemonte trovò per stimolo e non per reazione negativa esplicite e indiscutibili manifestazioni quali non si erano avute durante il lungo periodo di governo spagnolo. Senza slcun dubbio, infatti è nella svolta culturale impressa dalla politica di Carlo Emanuele III e del suo ministro Bogino che vanno ricercate quelle elaborazioni culturali che portarono alla fine del secolo […] al moto rivoluzionario capeggiato, nella fase finale, da Giovanni Maria Angioi, moto che era anche espressione di esigenze nazionalitarie per secoli compresse.[9]

Non sorprende allora come, all’interno di questo quadro sociale e culturale, il Madao sia mosso da considerazioni che ben si inquadrano nella temperie settecentesca e illuminista-riformista; infatti

il coinvolgimento degli intellettuali nella politica boginiana diede frutti significativi, come è dimostrato dal numero dei libri importanti editi in quegli anni, dalla circolazione della cultura europea e dalle idee fisiocratiche e illuministe nell’isola, dalla diffusione dei modelli letterari dell’Arcadia italiana, dai primi, organici studi sulla lingua sarda e soprattutto dalla partecipazione di molti uomini di cultura, sardi e piemontesi, alla definizione e alla realizzazione delle riforme, con studi sulle risorse naturali dell’isola, con progetti di opere pubbliche, con memorie sullo sviluppo dell’economia.[10]

Così anche la cura della lingua ‘nazionale’ è un fattore che contribuisce alla crescita civile, anche in ambito internazionale. E dunque, allo stesso modo che si fa commercio di merci, e di beni materiali, e così come si scambia la moneta di buon corso, allo stesso modo è necessario e comunque utile lo scambio linguistico:

Noi siamo nati non solo per mantenere la società co’ nostri Sardi concittadini, e compatriotti; ma inoltre per formare cogli uomini di qualsivoglia nazione, e clima, e linguaggio una comunità, e una repubblica, per via di socialità e d’amicizia Nati sumus ad societatem, comunitatemque generis humani (b Cic. Or. Pro Sext. Rosc. Amer.). In virtù di quest’amicizia, e società le cose degli amici, qualora così il richieda o il dovere, o la convenevolezza, debbon esser comunicate agli associati; e ogni reame, ogni provincia, ogni paese del momdo dee mai sempre studiarsi di procurar, e promuovere la comune utilità, e il privato vantaggio di tutti gli altri. […] Secondo questo principio, fondato ne’ diritti delle genti, e della stessa natura ragionevole, la nostra nazione è in dovere di corrispondersi colle altre, che le sono amiche col fare una permuta delle sue merci, e come un general barattamento di ciò ch’essa ha di peculiare, e a lei superfluo. […] Ma quest’amichevol corrispondenza non basta a soddisfare pienamente a’ tanti doveri della nostra politica società. Bisogna che inoltre facciamo, siccome delle merci, così ancora un traffico delle lingue, le quali, come bene notò un eccellente Scrittore, sono state dalla provvidenza istituite per fomentar l’amicizia, e la mutua socialità tra tutti gli uomini. […] siccome la moneta di giusto peso e valore ha il suo corso, e si cambia nelle amiche nazioni pel traffico mercantile, e pecuniale; così pure la lingua d’una nazione dee avere il suo corso, e come barattarsi colle altre lingue pel commerzio politico, e letterario. … Avvengachè, scarseggiando, come spesso avviene, la lingua d’una nazione d’eleganti vocaboli, ed espressivi, non mai avrebbe il soccorso di quelle, che ne abbondano, onde pigliarli; e non essendo capite molt’eccellenti opere di celebri Autori per esser stampate in non intese lingue, e affatto stranie; per forza mancherebbero le stesse scienze. […] Ora posciachè le amiche nazioni straniere cotanto ci onorarono, e tuttor ci onorano della comunicazione non meno delle lor eccellenti, e scientifiche opere, e delle lor eleganti, e colte lingue; non dovremmo anche i Sardi coltivar, e pulire la Sarda lingua, per farla come in contraccambio comunicabile a quelle, e scrivere, e stampare delle Sarde opere, valevoli a mantenere il meglio che possiamo il letterario commerzio cogli altri reami, e a sempre più promuovere la comune utilità di questa gran Repubblica del mondo?[11]

Il progresso economico deve dunque procedere di pari passo con quello culturale e scientifico; anzi queste due dimensioni del progresso hanno, potrebbe dirsi, la stessa forma, che è quella dello scambio. Dar forma alla lingua sarda significa porre la Sardegna entro il civile consorzio internazionale delle scienze, e della cultura, ma in maniera tale che mantenga la propria specificità ‘nazionale’. La “coltivazione” della lingua è un impegno che deve essere fatto proprio dalle più civili nazioni, è un loro precipuo dovere: quindi anche i Sardi, se vogliono partecipare al consorzio delle nazioni, debbono impiegare in maniera colta ed elaborata la loro lingua.   
Né i presunti ostacoli all’azione di promozione del Sardo sono tali. Val la pena, ed anzi è necessario e doveroso, coltivare il Sardo, anche in una terra piccola e isolata, perché non ci si può autocondannare all’incultura e all’esclusione. Né la promozione della lingua sarda potrà essere di ostacolo e di impedimento all’apprendimento e all’uso di altre lingue, l’Italiano in primis (lingua che ormai andava diventando, magari faticosamente, la lingua dell’amministrazione, dell’istruzione e del governo sabaudo, e che in Sardegna andava progressivamente sostituendo lo Spagnolo), perché ovunque si può apprendere e impiegare più d’una lingua. Né è un problema l’esistenza di una variazione, diatopica diremmo oggi, all’interno del Sardo, perché si può scegliere una delle varietà e su questa agire per elevarla e “ripulirla”.

Gli assunti del Madao portano alcune interessanti proposizioni, se consideriamo i tempi in cui esse furono pronunciate – tempi in cui la linguistica non aveva assunto ancora la dimensione di una moderna scienza; ed anche se oggi non possono essere più in gran parte condivisibili, tuttavia alcune di tali proposizioni, continuano, a prescindere dalle nozioni e cognizioni di chi le ha emesse, a rimanere come dati scientifici. Fra queste va ricordata l’asserzione del Madao che è quella che il Sardo è una lingua arcaica e assai conservativa, e che tale è in quanto lingua di un’isola; tale lingua pertanto non ha subito, e in maggior grado nelle regioni più interne, influenze e ‘contaminazioni’ straniere. Certamente è da tenere in conto l’idea, che è tutt’oggi valida per la linguistica storico-comparata, e ch’egli riprende dal Muratori, l’idea cioè che quel che, in una determinata lingua, non si spiega, o mal si spiega soltanto riferendosi o soltanto tenendo conto (della storia o dei dati) di quella tale lingua, può trovare invece adeguata spiegazione comparando (i dati di) tale lingua con quelli di un’altra che le sia prossima. Dunque anche, ed anzi soprattutto, il Sardo, data la sua conservatività, può essere un ottimo elemento di comparazione per spiegare l’origine di molti elementi lessicali di altre lingue, quali, in primis, l’Italiano. Tuttavia manca ancora al Madao l’idea della complessità dell’evoluzione di una lingua (oltre che, ancora ed ovviamente, l’idea e la prassi della comparazione linguistica in senso scientifico), e quindi anche del Sardo, e tutto così egli riduce, quasi supinamente, all’idea semplice di conservatività; a lui manca ancora la cognizione della reale portata degli influssi di superstrato sulla lingua sarda, per quanto non gli siano totalmente ignoti, tanto italiano quanto iberico; e soprattutto manca alla sua cognizione ogni capacità di distinguere fra elementi linguistici di trafila diretta ed elementi di tradizione culta, questi ultimi sempre da lui in pratica intesi come meri tratti di conservazione.
Ancora: se da un lato il Madao non soltanto ben vede, pur nei limiti che il sapere del suo tempo poteva permettergli, la discendenza diretta del Sardo dal Latino, egli abbozza pure una attendibile cronologia di tale discendenza: per cui il Sardo sarebbe scevro sia dagli elementi della latinità più arcaica, in quanto la conquista romana avvenne solo successivamente a tale fase della storia romana, sia da quelli più tardi e ‘barbarici’, in quanto la Sardegna si separò dal tronco della romanità prima che questa si imbarbarisse; d’altro  canto sfugge a lui l’apporto della latinità perenne, che si affianca come superstrato culto, e convive con i volgari neolatini. Ma soprattutto resta inopinata la convinzione del Madao rispetto al fortissimo contributo, lessicale, che il Greco avrebbe dato alla lingua sarda, convinzione che poggiava su cognizioni storiche poi risultate non vere. Non solo egli non distingue, né poteva, fra grecismi diretti (che oggi sappiamo essere pressoché assenti nel Sardo, a parte quelli di epoca bizantina) e grecismi giunti al Sardo attraverso il Latino (cauma, per esempio, da lui citato), ma egli ascrive tale influsso alla storia antica della Sardegna preromana, nella quale il mondo greco avrebbe esercitato grande influenza. Certo le cognizioni storiche, specie della storia antica, del Nostro sono quelle che sono, in gran parte ancora mitiche, e ancora tributarie dell’epoca sua (si veda, per esempio, l’influsso della cultura egiziana sulla Sardegna, che non ha riscontro storico o storiografico oggi; insieme a quello, certo più veritiero dell’influenza fenicia e punica), ma qui emerge pure la formazione retorica del Madao, che viene a farsi fin pregiudizio ed ideologia mitizzante.
Il fatto, per lui certo, che una lingua sarda si sia mantenuta assai prossima a lingue d’origine di per sé ‘nobili’ e di grande prestigio cultural-retorico, quali il Latino e il Greco, nobilita di per se stesso la lingua che da queste discende conservandole. La vicinanza e la discendenza del Sardo dal Greco è data solo per via di meri accostamenti fonetici; e tuttavia è da lui presa per buona. In una sorta di transfert o di paralogismo – ovviamente non detto, e solo sottaciuto e forse in lui perfino inconsapevole – per cui se vi sono somiglianze fonetico-lessicali fra parole sarde e parole latine in quanto il Sardo dal Latino proviene, allo stesso modo, paralogisticamente, le somiglianze col Greco dovrebbero dimostrare una discendenza del Sardo anche dal Greco. Un paralogismo sostenuto da una passione che si fa finanche forse ideologia, a sua volta basata su ragioni di stampo erudito, come quelle che vedono la ‘nobiltà’, e quindi il valore di una lingua poggiare sul suo pedigree.

Al di là di questo tuttavia, importa sottolineare le ragioni delle scelte politico linguistiche del Madao. Per lui la lingua è qualcosa di ancora più materno che la madre stessa, dalla quale, col progredire dell’età, ci allontaniamo e cessiamo di essere nutriti, mentre la lingua resta qualcosa di consustanziale al corpo dei cittadini (ma pure alla nostra essenza stessa), uniti in un medesimo vincolo sociale:

La Sarda è la lingua natía, patria, materna, e per più titoli nostra; nè altro si è il vincolo di natura, che stretto ci avvince, e attacca alla patria, a’ genitori ed a noi medesimi,  che quello, il quale ci lega con essa lingua […]. Ma non siamo altresì educati e allevati nulla men che nel patrio Sardo suolo, e nel materno grembo, nella patria, e materna Sarda lingua? … Certamente che si […] Anzi l’educazione, che da quest’abbiamo, egl’è tanto più che ogn’altra vantaggiosa, e utile quantoch’è più universale è più durevole. Avvengachè  quella della nostra madre non dura per l’ordinario fuorchè i primi anni della nostra fanciullezza, o tutt’al più quant’è in fiore la nostra età; dove quella della lingua ci guida, e ci va formando tutta la vita, né giammai sa dar fine per istituirci ragionevoli, sociali, cristiani, e politici …… Non dee essere dunque per noi più rispettabile il patrio Sardo suolo, e il materno grembo che la patria, e materna Sarda lingua.[12]

La lingua è, dunque, primariamente nutrice, più e più fortemente, della madre stessa; ed è vincolo comune, al pari del comune suolo natio. Suolo e lingua formano dunque la nazione (quasi un’estensione della famiglia), e la lingua è sostanzialmente un fatto naturale. E la ‘naturalità’ trasmuta quasi impercettibilmente in funzionalità, ma in una funzionalità a base emotiva:

La delicatezza del volgo in questa parte può dirsi estrema…. Il più solido ragionamento, e il più efficace discorso, propostogli in diversa lingua dalla sua propria sarà per lui snervato, ed inefficace: laddove per convincerlo, e per commuoverlo sarà mai sempre un principio di vittoriosa ragione proporglielo in quella lingua, per cui è naturalmente appassionato.[13]

Le idee del Madao, oltre che impostate su di una base retorica ed erudita, risentono molto, lo si è già detto, del clima settecentesco illuminista: quale quello della pubblica utilità, del libero commercio quale fonte di benessere, della pubblica felicità, diremmo. Pertanto – lo abbiamo visto (cfr. sopra n. 10 – così come si scambiano merci e moneta, altrettanto è d’uopo scambiare parole fra genti e popoli di lingue diverse, poiché questo scambio porta ad un arricchimento reciproco delle lingue medesime.

Lo scambio implica però la buona qualità di ciò che si scambia, per poter stare e scambiare alla pari: e pertanto bisogna ‘ripulire’ la lingua sarda per poterla poi proficuamente scambiare.
Manca tuttavia, nell’argomentazione del Madao, il nesso nazione-stato, o semmai esso resta sottaciuto e sottotraccia; da un lato esiste infatti il Regnum Sardiniae quale entità plurisecolare, e al di là della casa regnante; dall’altro il Madao ben si guarda, almeno all’apparenza di questo scritto, da ogni disegno di separazione della Sardegna dalla casa sabauda, che anzi egli propone per l’Isola l’illuminata protezione del sabaudo sovrano. Una cautela diplomatica, ma forse meglio una prudenza politica che ben vedeva le forze in campo; in un auspicio d’armonia, ancora forse tipicamente da ancien régime, che non prefigurava la necessità che la nazione dovesse essere, ipso facto, anche stato assolutamente indipendente nella sua forma istituzionale, svincolato da qualsiasi autorità o fonte di potere al di sopra di sé; ma pure nella contraddizione – che tale è però soltanto se si voglia guardare tali fatti ed assetti istituzionali con gli occhi, anacronistici, dell’oggi – di una realtà storica, giuridica ed istituzionale, quale quella del Regno di Sardegna, governato dalla monarchia dei Savoia e da questa largamente controllato e diretto[14]. Ma non bisogna neppure dimenticare l’utopia dei ‘progressisti’ sardi che miravano ad una concreta autodeterminazione della Sardegna, pur all’interno di una confederazione monarchica che aveva la sua testa a Torino. Ed è così che si spiegano certe posizioni del Madao, il quale quasi si affretta a mettere le mani avanti nel dire che il suo intento di “ripulire” la lingua sarda, e di proporla come lingua nazionale, non ha nessuna mira oppositiva nei confronti dell’Italiano e della sua conoscenza e diffusione presso i Sardi in Sardegna. Ma proprio qui si notano posizioni che nel futuro dibattito europeo su lingua e nazione fruttificheranno e saranno oggetto di riflessione. In effetti, sia pure in maniera indiretta, il Madao distingue fra classi e popolo; fra élites intellettuali (con la loro lingua/lingue) e classi popolari. E allora gli intellettuali potranno e dovranno conoscere e impiegare l’Italiano, ma pure altre lingue, e non solo quali lingue di cultura; ma solo il Sardo potrà e dovrà essere la lingua dei Sardi, di tutti i Sardi al di là della classe sociale di appartenenza di ciascuno di essi[15]. Le lingue ’altre’, sembrerebbe doversi dedurre, sono per la ragione (per l’esercizio intellettuale e critico), il Sardo è per l’emozione (dell’autoriconoscimento), il che non significa, e lo abbiamo visto, irrazionalità; ma la via attraverso la quale, anche tramite un discorso impegnato, si riesca a colpire l’animo di chi lo recepisce e a provocare in costui adesione e convincimento: è all’oratoria che il Madao fa forte riferimento, e dunque alla lingua quale medium (non si dimentichi che egli è uomo di Chiesa, e gesuita), da utilizzare nei canali mediatici più opportuni.
Ma qui pure sta un cruccio, se così vogliamo dirlo, del Madao, che ravvisa una contraddizione di fatto all’interno dello stato delle cose ‘culturali’ della Sardegna. Se infatti egli pone il Sardo quale lingua nazionale dei Sardi, egli si rende pure ben conto, anche se non lo dice esplicitamente, che alla tradizione culturale sarda manca quel qualcosa che si chiama letteratura. Non esplicitamente dicevo, e forse è a lui non ancora chiarissimo il legame che, anche mediaticamente, deve tener unite lingua e letteratura, quest’ultima come amplificatore della prima, oltre che grande bacino di creazione mitopoietica (semmai egli è più sensibile alle tradizioni popolari, ed è infatti autore di Le armonie dei sardi, con intuizione e spirito precursori dei tempi)[16]; in questo il Madao può dirsi ancora uomo del Settecento. Ma in ogni caso il Madao è convinto della mancanza di una elaborazione in senso (diafasicamente) elevato della lingua sarda. Donde la necessità di ‘ripulirla’. E in questo egli riprendeva, a due secoli di distanza, le considerazioni e l’atteggiamento medesimo dell’Araolla, che vedeva la lingua sarda ancora «impolida e ruggia», ragion per cui emergeva in lui la necessità di «accreschirela e pulirela»[17]. Ma la tal cosa è per il Madao essenzialmente un fatto di grammatica e di retorica, un fatto di buoni scrittori, più che di letterati in senso (post)ottocentesco, un’azione che deve essere compiuta sull’esempio dei modelli delle lingue prestigiose classiche e moderne europee.
Il Madao argomenta questa discrepanza e stato di minorità, in cui il Sardo si troverebbe ancora a dibattersi, distinguendo in ogni lingua, da un lato la materia primigenia di essa, e dall’altro l’arte con cui essa è stata elaborata e curata nella storia. Il Sardo avrebbe allora una buona materia derivata da un, a suo avviso, poderoso e nobile retaggio storico, ma una non sufficiente elaborazione d’arte: ed è qui che gli uomini di sapienza e di ingegno dovrebbero intervenire. Non si tratta quindi tanto di adoperarsi con invenzione creativa, quanto invece con erudizione di conoscenze ed esperienze filologiche e grammaticali. Il Sardo ha dunque ottima materia di base e d’origine, ma manca ancora di un’accurata elaborazione. Un appello dunque ai dotti compatrioti a procedere in tale opera elaborativa, affinché non venga persa la potenzialità intrinseca della patria lingua comune.

Il pregio d’una lingua può provenir da due cose, che in essa si possono riguardare; cioè dalla natura, e dall’arte. La natura della lingua è il fondo dei suoi vocaboli, e idiotismi, il quale si presuppone già fatto. L’arte è l’industriosa coltura, onde quello si riforma, e si ripulisce: Natura materiae, ars doctrinae est; haec fingit, illa fingitur  (a Quint. I.a.c. 20). La sola arte non ha verun pregio senza quella presupposta materia, cui possa perfezionare, cioè senza quel fondo di idioma, suscettibile d’artifiziosa coltura; dove per l’opposto la materia, o il fondo dell’istesso idioma può avere tutto il suo pregio, eziandio senza l’arte: Nihil ars sine materia; materiae etiam sine arte pretium est (b Id. Ibid.). Tuttavia un idioma, che non sia in molto pregio a cagion della sua materia, sarà certamente pregevole per la sua artifiziosa coltura. Ma sarà senza paragone più pregevole quello, a cui, eziandio mancando questa, toccò in sorte una materia, e una natura, non che buona solamente, ma ottima per esser coltivata, e ripulita coll’arte: Ars summa; materia optima melior (c Idem Ib.)…. Il Sardo non ebbe ancora il pregio proprio dell’arte, onde tante lingue dell’Europa divennero colte, e pulite; ma il miglior, e il più bel pregio, proprio dalla sua materia, e dal fondo dei suoi vocaboli, e de’ suoi idiotismi…. A ben giudicare però dall’eccellente materia, o dal fondo della nostra lingua Sarda, è d’uopo che la consideriamo primamente ne’ suoi principj, secondo ne’ suoi progressi; terzo nel suo stato presente. Nell’osservare i suoi principj, noi ravviseremo in essa un’antica, e molto nobile origine, I. Osservazione: nell’osservare i suoi progressi, noi troveremo in essa un complesso de’ migliori dialetti, II Osservazione: nell’osservare il suo stato presente, noi vedremo in essa la più grand’analogia colle due più universali lingue del mondo. III Osservazione. Da queste tre osservazioni ne viene la dimostrazione d’esser ottima la lingua Sarda, e d’avere nella sua materia de’ rarissimi pregi, onde allettare i Sardi a coltivarla.[18]

Connesso a questo problema, anzi direi consustanziale, vi è quello dello iato fra la lingua comunemente parlata e quella frutto della elaborazione di cui si diceva; il problema cioè di contemperare i due “stili”, le due variazioni diremmo oggi. Cosa non facile per il Nostro:

Una sola difficoltà sembra che potrebbe attraversarsi per non fare una tal riforma, cioè per conto del volgo, il quale avido, e tenace, come mai sempre esso è  di quanto si è messo in usanza, forse non porterà in pace che alcuna mutazione si faccia quanto al proprio dialetto, eziandio in una voce di esso. Ma la censura del volgo poco, o nulla dee premerci in questa parte, perciocchè quella novità, che può farsi nel ripulimento della materia del dialetto, oltre all’essere poca, e accidentaria, verrà, s’è messa in ragione, come supponiamo che sia, pienamente approvata dal consentimento de’ saggi, dietro a’ quali senza dubbio il Sardo volgo verrà altresì a piegare a poco a poco, secondoch’esso è uso di fare in tutte quelle novità, che ogni giorno accadono nel pubblico.
[…]
Con ciò però dir non vogliamo che non s’abbia verun riguardo all’infima Sarda plebe. Anzi dee aversene molto; maggiormente essendo questa assai gelosa di custodire, e serbar intatto il deposito della purità, proprietà, e antichità della lingua, per le quali le si concilia la venerazione, come men esposta alla mescolanza delle lingue starniere, che co’ libri s’introducono, e col traffico, e commerzio de’ forestieri. Bisogna però che anch’essa sia presa in considerazione da noi nella mutazion che faremo de’ vocaboli, o delle pronunzie del nostro patrio idioma, disponendola ad essa, e trattandola con quella dilicatezza, che le nutrici sempre usano nell’ispoppare i bambini.[19]

Dunque una sorta di azione dirigista entro la quale il popolo deve essere guidato, magari con benevolenza, senza che possa o debba partecipare attivamente al processo propulsivo della dinamica linguistica. Esso è un deposito imprescindibile di ricchezza, e va pertanto tenuto in tutto il conto che merita; ma il popolo è in sé inerte, ed anzi, forse, tendenzialmente frenante se non proprio ostile, pur tuttavia duttile e malleabile. Ed è proprio in questa inerzia che sta riposto il tesoro della lingua, in quanto la conservazione della nobiltà e della purezza di essa si trova depositata e salvaguardata proprio in questa inerzia. Ed in questa docilità è riposta la possibilità di lavorare abbastanza agevolmente su di essa.
     
Inoltre altro problema che il Madao si pone e propone è quello della unitarietà della lingua. In questo egli sta in linea con la modernità a lui contemporanea e, in generale, fino ad oggi durevole quasi dovunque. La lingua nazionale deve essere e non può che essere unitaria, né si può concepire una variabilità. Al Madao sono ben chiare le linee della variazione diatopica della lingua sarda: egli è ben consapevole che le parlate della Sardegna settentrionale sono allogene e di derivazione italiana; ed è pure a conoscenza delle due macrovarianti sarde, quella del settentrione isolano e quella del meridione; ed innesta questa differenza sull’analogia della variazione diatopica del greco. Si tratterà allora di scegliere una delle due (macro)varianti e di dedicarsi al ‘ripulimento’ di quella. Ad una iniziale indifferenza fra le due, il Madao fa però immediatamente seguire la preferenza per la macrovariante settentrionale in quanto più conservativa e dunque più vicina e analoga al modello latino che si impone, per lui, di per sé. E così come i Greci si diedero a ‘pulire’ i dialetti loro migliori, allo stesso modo dovranno fare i Sardi.

Ben si può vedere quindi come il Madao da un lato sia stato portatore di idee tributarie del suo tempo, tanto nei loro stimoli innovativi, sorretti dalla temperie illuministico riformatrice settecentesca, quanto nel limite costituito da un retroterra erudito e retorico, e ‘viziato’ da un amor patrio che giunge ad essere mitico-ideologico e dunque fuorviante; e dall’altro come egli abbia proposto una tematica ed una problematica, che, sopite o addirittura obliterate per più o meno duecento anni, riemergono, certo aggiornate e collocate in un contesto ben diverso, nel dibattito politico e culturale contemporaneo sardo: dal problema della salvaguardia della lingua sarda, a quello di scoprire in essa la marca fondamentale dell’identità (nazionale); dal problema di rendere il Sardo lingua, a tutti gli effetti, all’altezza di una civiltà e di una cultura moderna e complessa, a quello di trovare una varietà sovralocale che superi il particolarismo localistico; dalla rivendicazione della sua nobiltà e capacità, alla prospettiva di rendere attuali le sue potenzialità ancora inespresse; dal dirigismo normativizzante al riconoscimento del tesoro linguistico depositato nel popolo.
Il Madao, magari malgré lui, anticipatore, e forse pure seminatore del futuro, oppure la perennità di una, magari innocente, irresoluzione tutta sarda? Di una Sardegna la cui classe dirigente – per dirla parafrasando Girolamo Sotgiu[20] – così come si era spagnolizzata, si è poi italianizzata senza riuscire a sardizzarsi.
 La sua opera linguistica va comunque considerata con oggettività e in maniera, per quanto possibile, deideologizzata, considerando il periodo in cui egli visse e i suoi travagli; se certamente certe sue posizioni possono apparire attardate o addirittura antiquate, Matteo Madao restava, per tanti altri versi, perfettamente al passo coi tempi; e, in tempi in cui l’avanzare della ‘modernità’ – che non è mai un destino intrinseco ed ineluttabile, ma tutt’al più un processo articolato e composito – non era così lineare, mentre la tradizione della classicità manteneva tutto il suo peso: infatti «come altri nell'Europa del Settecento, il suo [del Madao] era un "patriottismo" cosmopolita, funzionale a un proficuo "traffico delle lingue" e "de' libri scritti in quelle". Si sbaglierebbe dunque a considerarlo un erudito lontano dalle conoscenze e dalla sensibilità del suo tempo»[21]. Tutto ciò assume una valenza ancora più forte se si pensa alla situazione specifica della cultura sarda e in particolare della sua lingua. Qualora cioè si tenga conto della mancanza, in Sardegna, di una tradizione linguistico-letteraria forte e radicata; per tale ragione si può spiegare la distinzione fra ‘natura’ ed ‘arte’ per ciò che concerne i, per lui, fattori base di una lingua; ora il Sardo ha una buona ‘natura’ perché discende dalla latinità e la conserva, mentre difetta di ‘arte’: è dunque questa ‘natura’ che bisogna esaltare, ed è a partire da qui che deve avviarsi il processo di elaborazione: il che porta a premere sul tasto della classicità. Ciò non impedisce però al Madao di pensare che si possa prevedere un arricchimento attraverso il contatto e lo scambio, pur certo controllato, con le altre lingue; e attraverso l’apporto popolare, che costituisce  per lui – e ciò non va mai dimenticato, né se ne deve tacere la portata novatrice – il deposito base della lingua, da acquisire anch’esso pur sotto vigile sorveglianza, ma senza nessuna preclusione. La ‘stramberia’ eccentrica del Madao sta semmai, se si vuole osare dirlo, nell’aver amalgamato ‘popolo’ (sardo) e classicità, in quanto è proprio il ‘popolo’, anzi la ‘nazione’, ad esser stata la custode ‘naturale’ della classicità e ad averne protetto e preservato l’essenza. Pertanto il ‘ripulimento’ della lingua sarda che il Madao metteva, con più che un pizzico di utopia, in atto, non può esser giudicato soltanto come mera e passatista volontà di mantenimento di una tradizione retorico-classica: ‘ripulire’ per lui significava far emergere, nella miglior essenza e in tutta la sua potenziale modernità, lo spirito e il genio della nazione.

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Maurizio Virdis
(Università degli Studi di Cagliari)




[1] Riporto, con qualche taglio, alcune notizie biografiche su Matteo Madao, che traggo dal Dizionario Biografico degli Italiani Volume 67 (2007) (Treccani.it. L’enciclopedia italiana, pagina web http://www.treccani.it/enciclopedia/matteo-madao_(Dizionario-Biografico)/)  alla voce MADAO  (Madau) Matteo di Pietro Giovanni Sanna.
Matteo Madao (o Madau),  nacque a Ozieri, da Pietro e Martina Sanna il 17 ottobre 1733.
Studiò grammatica e retorica presso i gesuiti del paese natale e, già quasi ventenne (18 aprile 1753), entrò nella Compagnia. Fu novizio a Cagliari nella domus probationis della provincia sarda, vivace comunità di giovani provenienti da ogni parte dell'isola, dove completò gli studi inferiori. A Cagliari, il 29 aprile 1755, prese gli ordini minori e la prima tonsura. Destinato allo studio e all'insegnamento, si trasferì nel 1757 nel collegio di Iglesias, dove insegnò grammatica, e nel 1760 in quello di Alghero, dove intraprese gli studi superiori e insegnò grammatica e retorica.
Nel 1763, alla vigilia delle riforme dei due atenei sardi, giunse a Sassari, nel collegio di S. Giuseppe, dove completò gli studi di filosofia e intraprese il corso quadriennale di teologia: visse qui il momento più delicato delle riforme scolastiche sabaude, quando il ministro G.B. Bogino, varati i nuovi ordinamenti delle scuole inferiori, si accingeva a estromettere dalle università le comunità gesuitiche locali (espressione della vituperata cultura spagnolesca) e a rilanciare gli studi con un corpo docente radicalmente rinnovato. In particolare, mentre il collegio gesuitico sassarese si preparava a reagire alla perdita del controllo sugli insegnamenti, il ministro reclutava dai collegi della penisola, d'intesa col generale della Compagnia e con i gesuiti della provincia lombarda, i professori per le facoltà di arti e teologia.
M. apparteneva a una generazione di studenti solo marginalmente toccata dalle riforme; tuttavia finì nell'occhio del ciclone quando il suo nome comparve nella lista dei gesuiti sardi che il provinciale, il p. P. Maltesi, aveva proposto per ricoprire le cattedre vacanti dell'Università riformata (è "un gran genio delle lingue orientali, e ben istruito nella greca", aveva scritto a Bogino, proponendolo per la cattedra di Sacra Scrittura).
Nel 1765, era stato ordinato sacerdote. Negli anni successivi l'insegnamento nelle scuole dell'Ordine fu il suo impegno prevalente: dal 1767 peregrinò tra Ozieri, Cagliari e, di nuovo, Sassari (ma nel collegio Gesù Maria), dove nel 1773 seppe della soppressione della Compagnia. Per il M., ormai quarantenne, che aveva pronunziato i voti solenni solo tre anni prima, fu un colpo durissimo. In Sardegna, dove la Compagnia contava più di 300 membri, le disposizioni attuative del breve di Clemente XIV assegnavano ai professi che intendevano vivere in comunità due principali residenze: il collegio di S. Giuseppe a Sassari, dove già erano i docenti universitari, e il collegio di S. Michele a Cagliari, dove il M. si trasferì e dove trascorse il resto della vita, dividendosi tra le attività di devozione, gli studi classici e le predilette ricerche linguistiche.
N1782 pubblicò a Cagliari il suo lavoro più significativo: il Saggio d'un'opera, intitolata Il ripulimento della lingua sarda lavorato sopra la sua analogia colle due matrici lingue la greca e la latina, primo studio sistematico sulla lingua sarda e tentativo già organico di rivalutarne le origini e il ruolo, di ricostruirne la grammatica e le etimologie e di predisporne un dizionario, peraltro incentrato sui vocaboli di derivazione greca e latina.
Malgrado i limiti di una cultura relativamente provinciale, il M. fu un interprete precoce delle inquietudini di tipo identitario che serpeggiavano nella società isolana. Non a caso l'orgogliosa e commossa riscoperta delle tradizioni e del ricco patrimonio poetico-musicale delle popolazioni dell'isola divenne il fulcro della sua seconda importante fatica letteraria, Le armonie de' Sardi (Cagliari 1787).
La terza, significativa opera del M., Dissertazioni storiche apologetiche critiche delle sarde antichità (ibid. 1792), fu il coronamento del suo programma "patriottico": intrecciando disinvoltamente Sacre Scritture e autori classici, falsi conclamati e "autori favolosi", l'ex gesuita si spinse verso la più remota preistoria, con una farraginosa narrazione biblico-mitologica delle origini della "sarda nazione".
Peraltro, il M., pur autore di testi che tanto contribuirono a forgiare i sentimenti e la cultura politica dei patrioti sardi, non risulta né tra i protagonisti né tra i testimoni partecipi delle vicende che sconvolsero la vita pubblica del Regno tra il 1793 e il 1796. Nella vasta documentazione sulla "sarda rivoluzione" l'unico riferimento alla figura e all'opera del M. sembra essere un avviso del Giornale di Sardegna, gazzetta del movimento patriottico, che nel marzo del 1796 raccomandò le Dissertazioni storiche avvertendo i lettori che difficilmente avrebbero potuto trovare "in un altro libro certi aneddoti e pezzi di storia patria che qui si contengono”.
L’ex gesuita non esitò invece a gettarsi in polemiche religiose: nel 1784 con una focosa Lettera apologetica aveva strapazzato il domenicano G. Hintz, professore di Sacre Scritture a Cagliari, per la sua versione del salmo Exsurgat Deus. Nel 1792 stampò clandestinamente e sotto pseudonimo una requisitoria contro il presunto ispiratore di un anonimo opuscolo che lo accusava di profittare della credulità popolare rinverdendo i fasti dei miracoli eucaristici e della "frequente comunione". Instancabile promotore dell'uso dell' "idioma patrio" nelle cerimonie religiose e nelle pratiche devozionali, il M. aveva pubblicato, l'anno prima, la Versione de su Rythmu eucharisticu cun paraphrasis in octava rima, facta dae su latinu in sos duos principales dialectos, traduzione in sardo logudorese e campidanese di alcune preghiere e del celebre ritmo Adoro te devote attribuito a Tommaso d'Aquino.
Nel 1799 nel corso della permanenza della corte sabauda in Sardegna, Carlo Emanuele IV gli concesse una pensione sulle rendite della mitra cagliaritana. Conquistò la stima di Maria Clotilde di Francia, cui aveva donato un suo profilo biografico di G.B. Vassallo, gesuita piemontese morto a Cagliari venticinque anni prima, in odore di santità. Tra gli inediti, i biografi ottocenteschi segnalano una Relazione dell'invasione della Sardegna tentata dai Francesi nel 1793 e un Catalogo istorico di tutte le più illustri famiglie sarde: ma di esse si era perduta traccia già nel secolo XIX.
Degli ultimi anni di vita del M. s'ignora quasi tutto, inclusa la data di morte: i primi biografi concordano per il 1800 (a settembre, secondo Martini), ma i Quinque libri cagliaritani non ne recano traccia.

[2]  Ioan Mattheu Garipa, Legendariu de Santas Virgines, et Martires de Iesu Crhistu, Nuoro, Papiros, 1998, pp. 59-60
[3] Muratori L. A., Dell’origine della lingua italiana. Dissertazione XXXII, a cura di  C. Marazzini, Alessandria edizioni dellì’Orso, 1988, p. 81.
[4] Ivi, pp. 40-91.
[5]  Antonietta Dettori, Italiano e Sardo dal Settecento al Novecento, in L. Berlinguer e A. Mattone (eds.), Storia d’Italia. Le regioni dall'Unità a oggi. La Sardegna, Torino, Einaudi, 1998, pp. 1155-1197, a p. 1170.
[6] Madao M., Saggio d’un’opera intitolata Il Ripulimento della lingua sarda lavorato sopra la sua analogia colle due matrici lingue, la greca e la latina, Cagliari, Bernardo Titard, Stampatore dell’Illustrissima città, 1782, p. 1
[7] Ivi, pp. 24-25.
[8] Luciano Carta, La “sarda rivoluzione”. Studi e ricerche sulla crisi politica in Sardegna tra Settecento e Ottocento, Cagliari, Condaghes, 2001, pp. 28-29
[9]  Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, Roma-Bari, Laterza, 1984, pp. 107-108.
[10] Antonello Mattone, La Sardegna, in Dal trono all’albero della libertà (Atti del Convegno. Torino 11-13 settembre 1989), Roma, Ministero per i beni culturali e ambientali. Ufficio centrale per i beni archivistici, 1991, pp. 325-419, a p. 416.
[11] Ivi, pp. 27-29.
[12] Madao M., Saggio d’un’opera intitolata Il Ripulimento, cit. p. 23.
[13] Ivi, p. 26
[14] Sulla posizione storico-giuridica del Regno di Sardegna in epoca sabauda, sarà certamente da tenere in conto il lavoro di Italo Birocchi, La questione autonomistica dalla «fusione perfetta» al primo dopoguerra, in L. Berlinguer e A. Mattone (eds.), Storia d’Italia. Le regioni dall'Unità a oggi. La Sardegna, cit., pp. 133-199, segnatamente alle pp. 133-152.
[15] In effetti «quel che si voleva [da parte del governo  e della politica sabauda] era altra cosa: imporre a una classe dirigente, che parlava, scriveva e pensava in spagnolo di pensare, parlare e scrivere in italiano. Il che poi voleva dire imporre alla classe dirigente sarda di sposare la politica della classe dirigente piemontese, muovendosi all’unisono con essa, per la difesa di interessi, che potevano anche essere coincidenti con quelli delle popolazioni delle quali era espressione. La stragrande maggioranza degli abitanti dell’isola rimase del tutto estranea a queste innovazioni e continuò a parlare il sardo, come in parte fa anche oggi», Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, cit., p. 107.
[16] «La difesa della lingua, cioè, viene intesa come difesa di un’identità nazionale, che il Madao ricerca e individua nelle espressioni della poesia e dei canti popolari, riuscendo anche – anticipando concezioni che saranno poi dei romantici – a stabilire una distinzione tra espressioni culturali popolari, che egli è portato a considerare più genuinamente sarde, ed espressioni dei ceti più colti.», G. Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, cit. p. 108. Ma comunque una letteratura in lingua sarda si andava certo scrivendo in quegli anni, e «le esigenze delle quali era portatore il Madao erano evidentemente molto diffuse, se l’incontro con la cultura italiana portò non al fiorire di una letteratura in questa lingua, ma invece alla stagione della poesia in lingua sarda», ivi p. 109.
[17] Cfr. la dedica a Alonso de Lorca da parte dell’Autore in G. Araolla, Sa vida, su martirio e morte dessos gloriosos martires Gavinu Brothu e Gianuari, per Francisci Guarneriu istampadore de Nicolau Canellas, Calaris (Cagliari), 1582.
[18] Madao M., Saggio d’un’opera intitolata Il Ripulimento, cit. pp. 44-45.
[19] Ivi, p.  41
[20] Girolamo Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, cit. p. 115.
[21] Pietro Giovanni Sanna, MADAO  (Madau) Matteo, in Dizionario Biografico degli Italiani, cit.