Va riconosciuta a Matteo Madao
la proposizione e la messa in campo della questione della lingua sarda in senso
moderno, con una acutezza ed anche con un coraggio, oltre che con una lucidità
e una passione, che forse mai più dopo di lui hanno trovato pari riscontro.
Le sue posizioni, sullo scorcio degli ultimi
decenni del secolo XVIII, presentano e dimostrano una capacità di stare al
passo coi tempi, soprattutto quando si pensi che il suo discorrere sulla
questione linguistica si mostra del tutto in linea con le istanze dell’epoca e
con le proposte culturali coeve.
Se pure è vero che egli è in
larga misura tributario di concezioni e cognizioni linguistiche talvolta
alquanto attardate, ma cionondimeno ampie, tributarie della cultura primo
settecentesca se non pure seicentesca (fra gli studiosi di lingue da lui citati,
a parte i classici latini, il Covarruvia, il Du Cange, Charles Rollin, Pietro
Bembo, Francesco Redi, Anton Maria Salvini, e soprattutto Ludovico Antonio
Muratori), vissute pure nell’angustia dell’isola, fuori dalla quale egli non
aveva mai in vita sua messo piede, ciò che primariamente spicca in senso non
trascurabilmente moderno, nella sua posizione propositiva, è lo stabilirsi per
la prima volta in Sardegna del nesso lingua-nazione, in linea con l’affermarsi
delle aspirazioni nazionali dei popoli europei, e in un periodo storico che
anche in Sardegna si presenta denso di riflessioni e di eventi e gravido di
futuro, alla vigilia del cosiddetto triennio rivoluzionario. In lui spicca la
modernità nella considerazione sulla lingua (e sulle lingue) in seno alla
società e alla sua dinamica. E se anche il suo proposito di ripulire la lingua
in senso classico può apparire, come ebbe a dire Girolamo Sotgiu, utopistico e
magari antiquato, tuttavia è certo attuale il valore della lingua quale fattore
di civiltà in senso non più solo erudito, ma progressivo.
Le posizioni del Madao non
partono certo dal nulla: hanno infatti alle spalle quanto meno la riflessione,
la pratica e l’opera poetica di Gerolamo Araolla, che già, sul finire del XVI
secolo, non solo proponeva, ma anche additava ed attuava, con ragione e vigore,
la lingua sarda come lingua letteraria: con risultati di elaborazione e di
eloquio letterario più che ragguardevoli, e certamente raffinati; ed anzi con
una eccellente riflessione estetica e di poetica, al pari della conoscenza ch’egli
possedeva dell’attività, della produzione e della maniera letteraria, europea, a
lui contemporanea. Per l’Araolla si trattava però ancora ‘soltanto’ di
letteratura, pur nella coscienza di quanto, soprattutto all’epoca, la
letteratura potesse costituire non soltanto il blasone, ma anche la stoffa e la
sostanza della qualità di un organismo sociale, che già, benché ancora
auroralmente, cercava i propri connotati identitari, quanto meno nella
costruzione di una élite colta nelle proprie specifiche fattezze. E in un’epoca
in cui la Sardegna, politicamente organizzata nel Regnum Sardiniae (all’interno della confederazione dei regni
iberci), andava scoprendo o forse meglio iniziava a costruire se stessa come
soggetto storico e culturale sulla scena europea. Anche se mancava all’Araolla qualunque
ragionamento metalinguistico, benché non fosse assente in lui una chiarezza
metapoetica.
Tentativo che a suo modo
fruttificò. E non va certo, a questo proposito, dimenticato Gian Matteo Garipa
(che visse a cavaliere dei secoli XVI e XVII, nacque a Orgosolo, resse le
parrocchie di Perdasdefogu, di Baunei e di Triei, ed ebbe modo di soggiornare a
Roma), il quale vedeva il sardo quale lingua più che degna in quanto simile al
Latino. Così, nel Prologo al lettore, egli dice di aver voluto tradurre in
Sardo, nel 1627, il Leggendario delle
Santissime Vergini (Roma, 1620), col titolo di Legendariu de sas Santas Virgines et Martires de Iesu Christu a sas
honestas et virtuosas iuuvenes de Baonei & Triei:
pro esser sa limba Sarda
tantu bona, quanto participat dessa Latina, qui nexuna de quantas limbas si
platican est tantu parente assa Latina formale quantu sa Sarda, pro tenner sa
majore parte dessos vocabulos usuales, & quotidianos dessos quales si
seruit, ò latinos veros, e formales, ò latinos corruptos, cun sa differencia
specifica qui la differencia de totas sas ateras. Pro su quale si sa limba
Italiana si preciat tantu de bona, & tenet su primu logu inter totas sas
linguas vulgares pro esser meda imitadore de sa Latina, non si diat preciare
minus sa limba Sarda pusti non solu est parente de sa Latina, pero ancora sa
majore parte est latina comente sa isperiencia lu mostrat (à benes qui cun sa
mala pronunciatione, e malu iscrier, sos naturales la apan fata barbara, e qui
sia tenta pro tale dessos furisteris).
Et quando cussu non esseret,
est suficiente motiuu pro iscrier in Sardu, vider qui totas sas nationes
iscrien, & istampan libros in sas proprias limbas naturales in soro,
preciandesi de tenner historias, & materias morales iscritas in limba
vulgare. Pro qui totus si potant de cuddas aprofetare.
Anche in lui, come già nell’Araolla e più
tardi nel Madao, v’è il bisogno culturale di parlare e impiegare la lingua
sarda, naturale e ‘nazionale’, e la necessità di dirozzarla, di sottrarla alla
‘barbarie’ cui la riducono i parlanti “naturales”, che con ciò danno esca ai
forestieri di giudicarla, appunto, barbara. Ed in più aggiunge il Garipa, rispetto
all’Araolla e anticipando il Madao, che la lingua sarda trova la sua dignità e
il suo pregio, per esser essa prossima al latino.
Né certo erano assenti alla
riflessione del Madao le proposizioni del Muratori riguardo alla esperienza
storico-linguistica della Sardegna medievale e alla precocità dell’impiego del
volgare sardo rispetto a quello italiano:
non credo che si possa
dubitare che i Corsi e Sardi prima degl’Italiani cominciassero a valersi della
lor lingua volgare negli atti pubblici, o che nei Latini frammischiassero molte
voci e forme di dire volgari. Però sull’esempio suddetto anche la lingua
volgare Italiana, che fino al secolo XIII era stata solamente in bocca degli uomini,
cominciò in quello stesso secolo a farsi vedere ne’ versi de’ poeti, nelle
lettere, ne’ libri, e in altre
memorie.
Anche se
certo l’intuito del Muratori era ben superiore a quello del Madao; si consideri
quanto segue:
Certamente nella loquela del
volgo, e particolarmente de’ servi nati fuor di Roma, si truovavano non poche
storture; ma è anche probabile che gli stessi Romani nobili e Letterati non
pronunziassero nel quotidiano linguaggio
le voci come le scrivevano. [...] E però non è da stupire se nelle antiche
iscrizioni spezialmente del basso popolo si truovano voci scorrette, parte
delle quali nondimeno sono da attribuire agl’ignoranti marmorai. […] Pure chieggo io: s’ha egli
forse da credere che ne’ popoli vinti insieme si estinguessero affatto le
primitive loro lingue? Chi lo può credere? Non era questo assai facile. Lo
stesso Agostino attesta che fino a’ suoi tempi durava nell’Affrica la lingua
Punica. Ne’ tribunali bensì e negli atti pubblici per tutte le città del Romano
Imperio si usava la lingua Latina, e particolarmenle la parlavano gli uomini
delle colonie colà dedotte da Roma. Altrettanto si fa oggidì ne’ paesi
dell’America o dell’Asia, dove signoreggiano i Re di Spagna e Portogallo. Anzi
si pratica anche in Italia, dove secondo la Gramatica gli atti pubblici e le
prediche sogliono stendersi in buon linguaggio, mentre il popolo seguita ad
usare il dialetto proprio di ogni città o provincia, che è differente dal
parlare dei Dotti. Però non si dee credere tolta dai Romani la lor lingua
nativa ai suggellati popoli; ed è troppo verisimile che per lungo tempo
durassero i loro primitivi linguaggi, e che anche coll’andare de’ tempi si
mantenessero presso il volgo molti vocaboli e forme di parlare differenti dal
Latino idioma [...] Ma quello che merita speciale attenzione, si è l’avere San
Girolamo scritto, come di sopra vedemmo: Ipsa
Latinitas et regionibus quotidie mutabatur, et tempore: parole indicanti
che la lingua Latina avea già provato delle mutazioni, e quotidianamente si
andava alterando. [...] Abbiamo questa obbigazione principalmente agli
Scrittori Fiorentini, che valendosi della bellezza del proprio lor dialetto,
trassero essa nostra lingua a quella dignità ed onore che ritien tuttavia per
l’Europa. Ma forse verran tempi che anch’essa s’invecchierà e cadrà in rovina;
imperocché cosa v’ha di stabile e durevole nelle fluttuanti cose de’ mortali, e
massimamente ne’ linguaggi? Ci sta davanti il funerale della lingua Greca e
Latina: miglior destino non s’ha sempre da sperare alla nostra.
e non si
potrà non cogliere come il Muratori avesse una solida cognizione e deciso
intuito della dinamica linguistica, della sua dialettica sociale (distinzione fra
latino grammaticale e scritto da un lato e latino parlato e volgare dall’altro),
dell’apporto di ciò che oggi chiamiamo sostrato (o adstrato) linguistico
prelatino, della ciclicità delle fortune di una lingua. Il Madao invero
attesta l’attardarsi, in
un’area culturale periferica, delle teorie sulle origini storiche dei volgari e
sui loro rapporti con la latinità che avevano dominato il dibattito linguistico
in Francia e in Italia nel Cinquecento e nel Seicento. Le linee portanti delle
considerazioni teoriche e delle concrete procedure etimologizzanti messe in
atto si ispirano infatti ad alcuni dei rappresentanti più autorevoli delle
erudite ricerche sulle origini dei volgari, condotte empiricamente sul piano
della comparazione e della ricostruzione etimologica, e finalizzate alla loro
nobilitazione, attraverso l’individuazione di derivazioni illustri dal latino,
dal greco, ma anche da lontane lingue di cultura.
E infatti, a
parte qualche caso felice oppure ovvio, difficilmente il Madao azzecca le
etimologie delle voci lessicali sarde, e le etimologie da lui proposte, alla
luce dell’ oggi, fanno, magari benevolmente, sorridere.
A partire comunque dalle
considerazioni muratoriane, certamente il Madao portava la sua intenzione verso
posizioni marcatamente nazionalitarie, assunte con una forte valenza. Si legga
per esempio l’allocuzione al lettore del Ripulimento del Madao:
La
lingua della Sarda nostra nazione, comecché venerabile per la sua antichità,
pregevole per l’ottimo fondo de’ suoi dialetti, elegante, per le bellezze che
aduna delle altre più nobili, eccellente per la sua analogia colla Greca, e
colla Latina, e non solo giovevole, ma eziandio necessaria alla privata, e
pubblica società de’ nostri compatrioti, e concittadini, giacque in somma
dimenticanza in fino al dì d’oggi, dagli stessi abbandonata come incolta, e
dagli stranieri negletta come inutile. […] troppo mi cuoceva, e consumava sul
vedere già messo non che in disistima solamente, ma anche in aperto dispregio
il natìo linguaggio, ch’è il più sensibile vincolo del politico corpo de’
nazionali.
E
ancora, e più significativamente:
Tra’
Sardi v’ha uno stretto vincolo di società, e un intima unione, che non si può
violare. Come la Sardegna è la comun madre de’ Sardi; così veruno di noi è nato
per se solo, ma con l’intrinseca relazione a ciascuno de’ nostri compatriotti;
di modo che ogn’individuo diviene a titolo di patriottismo comune a tutti […].
In virtù di questa nostra società, non che tutte le nostre famiglie solamente,
ma inoltre tutt’i nostri paesi, villaggi siano, o città formano una comunità di
Sarda gente, di tanti cittadini composta, quanto siamo i Sardi, i quali diretti
viviamo sotto le stesse leggi da un Sovrano, e tra noi formiamo non solo una
intera Sarda nazione, ma anche una sola città, e un sol politico corpo di
repubblica […]. Ora di quest’ampia città, e di questo gran corpo di repubblica
il più immediato vincolo, e il più a proposito per unire tante membra, e
tant’individui, quanti sono i concittadini d’ogn’estrazione, non è altro, dice
Tullio, fuorchè la patria lingua de’ medesimi: Propior est ejusdem lingua, qua maxime conjuguntur (b) Cic. I.1 de Offic.).
…
Dunque quanto solleciti esser dobbiamo di fomentare, e promuovere lo spirito di
politica società tra noi medesimi; altrettanto dobbiam esserlo di coltivar
industriosamente la patria lingua Sarda, che n’è il vincolo.
La lingua dunque è il vincolo
che tiene la nazione, che concretamente la
fa, la costituisce: in quanto è il
vincolo “più immediato e il più a proposito”, per unire le membra altrimenti
disgregate della società, della ‘repubblica’, della “sarda nazione”. Il discorso, come è evidente, non è più
retorico, né prettamente elitario-letterario, ma è prettamente sociale e
politico: la lingua aggrega e amalgama ciò che peraltro è e rimane disgregato;
la lingua non è un elemento egualitario, le differenze sociali restano; essa
però è un cemento che fa corpo; che dà vita ad un organismo strutturato e
individuato: quale è la nazione. E nel XVIII secolo sardo il concetto di
‘nazione’, e la coscienza, politica, che la Sardegna costituisca una nazione,
si va affermando; anche se va detto che, all’epoca, nazione non coincide con
stato, o almeno non nel senso dello stato moderno post-ottocentesco. La
Sardegna è una nazione che ‘con-corre’, al pari degli altri stati di terraferma,
a formare il ‘policentrico’ stato
sabaudo, senza che vi sia alcun rapporto di subordinazione; essa mantiene i
propri organismi statali, la propria giurisdizione, il regolamento suo proprio.
D’altra parte
La società sarda di fine
Settecento aveva perduto l’omogeneità e l’immobilità che l’avevano
caratterizzata nel passato anche recente. […] Nelle città, soprattutto a
Cagliari, si erano formati strati di borghesia, in parte legati quanto
all’origine della loro ricchezza, ai signori feudali – si trattava in
particolare di avvocati notai e procuratori – e in parte arricchitasi con i
commerci, specie quello del grano. Particolarmente folto era inoltre nelle
città, soprattutto a Cagliari e a Sassari, il ceto degli artigiani e dei
manovali.
E dunque l’intellettualità sarda si formava,
agiva e pensava all’interno di questi fermenti nuovi e di questa rinnovata
situazione sociale, in parte innescata pure dallo stesso riformismo sabaudo, e
dall’azione riformatrice attuata dal Bogino nella seconda metà del secolo, che
comportava anche la riforma e la rinascita delle due Università isolane:
È un fatto che la coscienza
della diversità, dell’essere nazione,
se così è possibile esprimersi, pur con i limiti che questa espressione poteva avere
nel ‘700, proprio dall’approdo impetuoso della cultura italiana che giungeva
nell’isola tramite il Piemonte trovò per stimolo e non per reazione negativa
esplicite e indiscutibili manifestazioni quali non si erano avute durante il
lungo periodo di governo spagnolo. Senza slcun dubbio, infatti è nella svolta
culturale impressa dalla politica di Carlo Emanuele III e del suo ministro
Bogino che vanno ricercate quelle elaborazioni culturali che portarono alla
fine del secolo […] al moto rivoluzionario capeggiato, nella fase finale, da
Giovanni Maria Angioi, moto che era anche espressione di esigenze
nazionalitarie per secoli compresse.
Non sorprende allora come,
all’interno di questo quadro sociale e culturale, il Madao sia mosso da
considerazioni che ben si inquadrano nella temperie settecentesca e
illuminista-riformista; infatti
il coinvolgimento degli
intellettuali nella politica boginiana diede frutti significativi, come è
dimostrato dal numero dei libri importanti editi in quegli anni, dalla
circolazione della cultura europea e dalle idee fisiocratiche e illuministe
nell’isola, dalla diffusione dei modelli letterari dell’Arcadia italiana, dai
primi, organici studi sulla lingua sarda e soprattutto dalla partecipazione di
molti uomini di cultura, sardi e piemontesi, alla definizione e alla
realizzazione delle riforme, con studi sulle risorse naturali dell’isola, con
progetti di opere pubbliche, con memorie sullo sviluppo dell’economia.
Così anche la cura della lingua ‘nazionale’ è
un fattore che contribuisce alla crescita civile, anche in ambito
internazionale. E dunque, allo stesso modo che si fa commercio di merci, e di
beni materiali, e così come si scambia la moneta di buon corso, allo stesso
modo è necessario e comunque utile lo scambio linguistico:
Noi siamo nati non solo per
mantenere la società co’ nostri Sardi concittadini, e compatriotti; ma inoltre
per formare cogli uomini di qualsivoglia nazione, e clima, e linguaggio una
comunità, e una repubblica, per via di socialità e d’amicizia Nati sumus ad societatem, comunitatemque
generis humani (b Cic. Or. Pro
Sext. Rosc. Amer.). In virtù di quest’amicizia, e società le cose degli amici,
qualora così il richieda o il dovere, o la convenevolezza, debbon esser
comunicate agli associati; e ogni reame, ogni provincia, ogni paese del momdo
dee mai sempre studiarsi di procurar, e promuovere la comune utilità, e il
privato vantaggio di tutti gli altri. […] Secondo questo principio, fondato ne’
diritti delle genti, e della stessa natura ragionevole, la nostra nazione è in
dovere di corrispondersi colle altre, che le sono amiche col fare una permuta
delle sue merci, e come un general barattamento di ciò ch’essa ha di peculiare,
e a lei superfluo. […] Ma quest’amichevol corrispondenza non basta a soddisfare
pienamente a’ tanti doveri della nostra politica società. Bisogna che inoltre
facciamo, siccome delle merci, così ancora un traffico delle lingue, le quali,
come bene notò un eccellente Scrittore, sono state dalla provvidenza istituite
per fomentar l’amicizia, e la mutua socialità tra tutti gli uomini. […] siccome
la moneta di giusto peso e valore ha il suo corso, e si cambia nelle amiche
nazioni pel traffico mercantile, e pecuniale; così pure la lingua d’una nazione
dee avere il suo corso, e come barattarsi colle altre lingue pel commerzio
politico, e letterario. … Avvengachè, scarseggiando, come spesso avviene, la
lingua d’una nazione d’eleganti vocaboli, ed espressivi, non mai avrebbe il
soccorso di quelle, che ne abbondano, onde pigliarli; e non essendo capite
molt’eccellenti opere di celebri Autori per esser stampate in non intese
lingue, e affatto stranie; per forza mancherebbero le stesse scienze. […] Ora
posciachè le amiche nazioni straniere cotanto ci onorarono, e tuttor ci onorano
della comunicazione non meno delle lor eccellenti, e scientifiche opere, e
delle lor eleganti, e colte lingue; non dovremmo anche i Sardi coltivar, e
pulire la Sarda lingua, per farla come in contraccambio comunicabile a quelle,
e scrivere, e stampare delle Sarde opere, valevoli a mantenere il meglio che
possiamo il letterario commerzio cogli altri reami, e a sempre più promuovere
la comune utilità di questa gran Repubblica del mondo?
Il progresso economico deve dunque procedere
di pari passo con quello culturale e scientifico; anzi queste due dimensioni
del progresso hanno, potrebbe dirsi, la stessa forma, che è quella dello
scambio. Dar forma alla lingua sarda significa porre la Sardegna entro il
civile consorzio internazionale delle scienze, e della cultura, ma in maniera
tale che mantenga la propria specificità ‘nazionale’. La “coltivazione” della
lingua è un impegno che deve essere fatto proprio dalle più civili nazioni, è
un loro precipuo dovere: quindi anche i Sardi, se vogliono partecipare al
consorzio delle nazioni, debbono impiegare in maniera colta ed elaborata la
loro lingua.
Né i presunti ostacoli
all’azione di promozione del Sardo sono tali. Val la pena, ed anzi è necessario
e doveroso, coltivare il Sardo, anche in una terra piccola e isolata, perché
non ci si può autocondannare all’incultura e all’esclusione. Né la promozione
della lingua sarda potrà essere di ostacolo e di impedimento all’apprendimento
e all’uso di altre lingue, l’Italiano in
primis (lingua che ormai andava diventando, magari faticosamente, la lingua
dell’amministrazione, dell’istruzione e del governo sabaudo, e che in Sardegna
andava progressivamente sostituendo lo Spagnolo), perché ovunque si può
apprendere e impiegare più d’una lingua. Né è un problema l’esistenza di una
variazione, diatopica diremmo oggi, all’interno del Sardo, perché si può
scegliere una delle varietà e su questa agire per elevarla e “ripulirla”.
Gli assunti del Madao portano
alcune interessanti proposizioni, se consideriamo i tempi in cui esse furono
pronunciate – tempi in cui la linguistica non aveva assunto ancora la
dimensione di una moderna scienza; ed anche se oggi non possono essere più in
gran parte condivisibili, tuttavia alcune di tali proposizioni, continuano, a
prescindere dalle nozioni e cognizioni di chi le ha emesse, a rimanere come dati
scientifici. Fra queste va ricordata l’asserzione del Madao che è quella che il
Sardo è una lingua arcaica e assai conservativa, e che tale è in quanto lingua
di un’isola; tale lingua pertanto non ha subito, e in maggior grado nelle
regioni più interne, influenze e ‘contaminazioni’ straniere. Certamente è da
tenere in conto l’idea, che è tutt’oggi valida per la linguistica
storico-comparata, e ch’egli riprende dal Muratori, l’idea cioè che quel che, in
una determinata lingua, non si spiega, o mal si spiega soltanto riferendosi o soltanto
tenendo conto (della storia o dei dati) di quella tale lingua, può trovare invece
adeguata spiegazione comparando (i dati di) tale lingua con quelli di un’altra che
le sia prossima. Dunque anche, ed anzi soprattutto, il Sardo, data la sua
conservatività, può essere un ottimo elemento di comparazione per spiegare
l’origine di molti elementi lessicali di altre lingue, quali, in primis, l’Italiano. Tuttavia manca
ancora al Madao l’idea della complessità dell’evoluzione di una lingua (oltre
che, ancora ed ovviamente, l’idea e la prassi della comparazione linguistica in
senso scientifico), e quindi anche del Sardo, e tutto così egli riduce, quasi
supinamente, all’idea semplice di conservatività; a lui manca ancora la
cognizione della reale portata degli influssi di superstrato sulla lingua sarda,
per quanto non gli siano totalmente ignoti, tanto italiano quanto iberico; e soprattutto
manca alla sua cognizione ogni capacità di distinguere fra elementi linguistici
di trafila diretta ed elementi di tradizione culta, questi ultimi sempre da lui
in pratica intesi come meri tratti di conservazione.
Ancora: se da un lato il Madao non
soltanto ben vede, pur nei limiti che il sapere del suo tempo poteva
permettergli, la discendenza diretta del Sardo dal Latino, egli abbozza pure una
attendibile cronologia di tale discendenza: per cui il Sardo sarebbe scevro sia
dagli elementi della latinità più arcaica, in quanto la conquista romana
avvenne solo successivamente a tale fase della storia romana, sia da quelli più
tardi e ‘barbarici’, in quanto la Sardegna si separò dal tronco della romanità
prima che questa si imbarbarisse; d’altro
canto sfugge a lui l’apporto della latinità perenne, che si affianca come
superstrato culto, e convive con i volgari neolatini. Ma soprattutto resta
inopinata la convinzione del Madao rispetto al fortissimo contributo,
lessicale, che il Greco avrebbe dato alla lingua sarda, convinzione che
poggiava su cognizioni storiche poi risultate non vere. Non solo egli non
distingue, né poteva, fra grecismi diretti (che oggi sappiamo essere pressoché
assenti nel Sardo, a parte quelli di epoca bizantina) e grecismi giunti al
Sardo attraverso il Latino (cauma,
per esempio, da lui citato), ma egli ascrive tale influsso alla storia antica
della Sardegna preromana, nella quale il mondo greco avrebbe esercitato grande
influenza. Certo le cognizioni storiche, specie della storia antica, del Nostro
sono quelle che sono, in gran parte ancora mitiche, e ancora tributarie
dell’epoca sua (si veda, per esempio, l’influsso della cultura egiziana sulla
Sardegna, che non ha riscontro storico o storiografico oggi; insieme a quello,
certo più veritiero dell’influenza fenicia e punica), ma qui emerge pure la
formazione retorica del Madao, che viene a farsi fin pregiudizio ed ideologia
mitizzante.
Il fatto, per lui certo, che una
lingua sarda si sia mantenuta assai prossima a lingue d’origine di per sé
‘nobili’ e di grande prestigio cultural-retorico, quali il Latino e il Greco,
nobilita di per se stesso la lingua che da queste discende conservandole. La
vicinanza e la discendenza del Sardo dal Greco è data solo per via di meri
accostamenti fonetici; e tuttavia è da lui presa per buona. In una sorta di
transfert o di paralogismo – ovviamente non detto, e solo sottaciuto e forse in
lui perfino inconsapevole – per cui se vi sono somiglianze fonetico-lessicali
fra parole sarde e parole latine in quanto il Sardo dal Latino proviene, allo
stesso modo, paralogisticamente, le somiglianze col Greco dovrebbero dimostrare
una discendenza del Sardo anche dal Greco. Un paralogismo sostenuto da una
passione che si fa finanche forse ideologia, a sua volta basata su ragioni di
stampo erudito, come quelle che vedono la ‘nobiltà’, e quindi il valore di una
lingua poggiare sul suo pedigree.
Al di là di questo tuttavia,
importa sottolineare le ragioni delle scelte politico linguistiche del Madao.
Per lui la lingua è qualcosa di ancora più materno che la madre stessa, dalla
quale, col progredire dell’età, ci allontaniamo e cessiamo di essere nutriti,
mentre la lingua resta qualcosa di consustanziale al corpo dei cittadini (ma
pure alla nostra essenza stessa), uniti in un medesimo vincolo sociale:
La Sarda è la lingua natía,
patria, materna, e per più titoli nostra; nè altro si è il vincolo di natura,
che stretto ci avvince, e attacca alla patria, a’ genitori ed a noi medesimi, che quello, il quale ci lega con essa lingua
[…]. Ma non siamo altresì educati e allevati nulla men che nel patrio Sardo
suolo, e nel materno grembo, nella patria, e materna Sarda lingua? … Certamente
che si […] Anzi l’educazione, che da quest’abbiamo, egl’è tanto più che
ogn’altra vantaggiosa, e utile quantoch’è più universale è più durevole.
Avvengachè quella della nostra madre non
dura per l’ordinario fuorchè i primi anni della nostra fanciullezza, o tutt’al
più quant’è in fiore la nostra età; dove quella della lingua ci guida, e ci va
formando tutta la vita, né giammai sa dar fine per istituirci ragionevoli,
sociali, cristiani, e politici …… Non dee essere dunque per noi più
rispettabile il patrio Sardo suolo, e il materno grembo che la patria, e
materna Sarda lingua.
La lingua è, dunque,
primariamente nutrice, più e più fortemente, della madre stessa; ed è vincolo
comune, al pari del comune suolo natio. Suolo e lingua formano dunque la
nazione (quasi un’estensione della famiglia), e la lingua è sostanzialmente un
fatto naturale. E la ‘naturalità’ trasmuta quasi impercettibilmente in
funzionalità, ma in una funzionalità a base emotiva:
La delicatezza del volgo in
questa parte può dirsi estrema…. Il più solido ragionamento, e il più efficace
discorso, propostogli in diversa lingua dalla sua propria sarà per lui snervato,
ed inefficace: laddove per convincerlo, e per commuoverlo sarà mai sempre un
principio di vittoriosa ragione proporglielo in quella lingua, per cui è
naturalmente appassionato.
Le idee del Madao, oltre che
impostate su di una base retorica ed erudita, risentono molto, lo si è già
detto, del clima settecentesco illuminista: quale quello della pubblica
utilità, del libero commercio quale fonte di benessere, della pubblica
felicità, diremmo. Pertanto – lo abbiamo visto (cfr. sopra n. 10 – così come si
scambiano merci e moneta, altrettanto è d’uopo scambiare parole fra genti e popoli
di lingue diverse, poiché questo scambio porta ad un arricchimento reciproco
delle lingue medesime.
Lo scambio implica però la buona
qualità di ciò che si scambia, per poter stare e scambiare alla pari: e
pertanto bisogna ‘ripulire’ la lingua sarda per poterla poi proficuamente
scambiare.
Manca tuttavia,
nell’argomentazione del Madao, il nesso nazione-stato, o semmai esso resta
sottaciuto e sottotraccia; da un lato esiste infatti il
Regnum Sardiniae quale entità plurisecolare, e al di là della casa regnante;
dall’altro il Madao ben si guarda, almeno all’apparenza di questo scritto, da
ogni disegno di separazione della Sardegna dalla casa sabauda, che anzi egli propone
per l’Isola l’illuminata protezione del sabaudo sovrano. Una cautela
diplomatica, ma forse meglio una prudenza politica che ben vedeva le forze in
campo; in un auspicio d’armonia, ancora forse tipicamente da
ancien régime, che non prefigurava la
necessità che la nazione dovesse essere,
ipso
facto, anche stato assolutamente indipendente nella sua forma istituzionale,
svincolato da qualsiasi autorità o fonte di potere al di sopra di sé; ma pure
nella contraddizione – che tale è però soltanto se si voglia guardare tali
fatti ed assetti istituzionali con gli occhi, anacronistici, dell’oggi – di una
realtà storica, giuridica ed istituzionale, quale quella del Regno di Sardegna,
governato dalla monarchia dei Savoia e da questa largamente controllato e
diretto
.
Ma non bisogna neppure dimenticare l’utopia dei ‘progressisti’ sardi che miravano
ad una concreta autodeterminazione della Sardegna, pur all’interno di una
confederazione monarchica che aveva la sua testa a Torino. Ed è così che si
spiegano certe posizioni del Madao, il quale quasi si affretta a mettere le
mani avanti nel dire che il suo intento di “ripulire” la lingua sarda, e di
proporla come lingua nazionale, non ha nessuna mira oppositiva nei confronti
dell’Italiano e della sua conoscenza e diffusione presso i Sardi in Sardegna.
Ma proprio qui si notano posizioni che nel futuro dibattito europeo su lingua e
nazione fruttificheranno e saranno oggetto di riflessione. In effetti, sia pure
in maniera indiretta, il Madao distingue fra classi e popolo; fra élites
intellettuali (con la loro lingua/lingue) e classi popolari. E allora gli
intellettuali potranno e dovranno conoscere e impiegare l’Italiano, ma pure
altre lingue, e non solo quali lingue di cultura; ma solo il Sardo potrà e
dovrà essere la lingua dei Sardi, di tutti i Sardi al di là della classe
sociale di appartenenza di ciascuno di essi
.
Le lingue ’altre’, sembrerebbe doversi dedurre, sono per la ragione (per
l’esercizio intellettuale e critico), il Sardo è per l’emozione
(dell’autoriconoscimento), il che non significa, e lo abbiamo visto, irrazionalità;
ma la via attraverso la quale, anche tramite un discorso impegnato, si riesca a
colpire l’animo di chi lo recepisce e a provocare in costui adesione e convincimento:
è all’oratoria che il Madao fa forte riferimento, e dunque alla lingua quale
medium (non si dimentichi che egli è uomo di Chiesa, e gesuita), da utilizzare
nei canali mediatici più opportuni.
Ma qui pure sta un cruccio, se
così vogliamo dirlo, del Madao, che ravvisa una contraddizione di fatto
all’interno dello stato delle cose ‘culturali’ della Sardegna. Se infatti egli
pone il Sardo quale lingua nazionale dei Sardi, egli si rende pure ben conto,
anche se non lo dice esplicitamente, che alla tradizione culturale sarda manca
quel qualcosa che si chiama letteratura. Non esplicitamente dicevo, e forse è a
lui non ancora chiarissimo il legame che, anche mediaticamente, deve tener
unite lingua e letteratura, quest’ultima come amplificatore della prima, oltre
che grande bacino di creazione mitopoietica (semmai egli è più sensibile alle
tradizioni popolari, ed è infatti autore di
Le
armonie dei sardi, con intuizione e spirito precursori dei tempi)
;
in questo il Madao può dirsi ancora uomo del Settecento. Ma in ogni caso il
Madao è convinto della mancanza di una elaborazione in senso (diafasicamente)
elevato della lingua sarda. Donde la necessità di ‘ripulirla’. E in questo egli
riprendeva, a due secoli di distanza, le considerazioni e l’atteggiamento
medesimo dell’Araolla, che vedeva la lingua sarda ancora «impolida e ruggia»,
ragion per cui emergeva in lui la necessità di «accreschirela e pulirela»
.
Ma la tal cosa è per il Madao essenzialmente un fatto di grammatica e di
retorica, un fatto di buoni scrittori, più che di letterati in senso
(post)ottocentesco, un’azione che deve essere compiuta sull’esempio dei modelli
delle lingue prestigiose classiche e moderne europee.
Il Madao argomenta questa
discrepanza e stato di minorità, in cui il Sardo si troverebbe ancora a
dibattersi, distinguendo in ogni lingua, da un lato la materia primigenia di
essa, e dall’altro l’arte con cui essa è stata elaborata e curata nella storia.
Il Sardo avrebbe allora una buona materia derivata da un, a suo avviso,
poderoso e nobile retaggio storico, ma una non sufficiente elaborazione d’arte:
ed è qui che gli uomini di sapienza e di ingegno dovrebbero intervenire. Non si
tratta quindi tanto di adoperarsi con invenzione creativa, quanto invece con
erudizione di conoscenze ed esperienze filologiche e grammaticali. Il Sardo ha
dunque ottima materia di base e d’origine, ma manca ancora di un’accurata
elaborazione. Un appello dunque ai dotti compatrioti a procedere in tale opera
elaborativa, affinché non venga persa la potenzialità intrinseca della patria lingua
comune.
Il pregio d’una lingua può
provenir da due cose, che in essa si possono riguardare; cioè dalla natura, e
dall’arte. La natura della lingua è il fondo dei suoi vocaboli, e idiotismi, il
quale si presuppone già fatto. L’arte è l’industriosa coltura, onde quello si
riforma, e si ripulisce: Natura materiae,
ars doctrinae est; haec fingit, illa fingitur (a
Quint. I.a.c. 20). La sola arte non ha verun pregio senza quella presupposta
materia, cui possa perfezionare, cioè senza quel fondo di idioma, suscettibile
d’artifiziosa coltura; dove per l’opposto la materia, o il fondo dell’istesso
idioma può avere tutto il suo pregio, eziandio senza l’arte: Nihil ars sine materia; materiae etiam sine
arte pretium est (b Id. Ibid.).
Tuttavia un idioma, che non sia in molto pregio a cagion della sua materia,
sarà certamente pregevole per la sua artifiziosa coltura. Ma sarà senza
paragone più pregevole quello, a cui, eziandio mancando questa, toccò in sorte
una materia, e una natura, non che buona solamente, ma ottima per esser
coltivata, e ripulita coll’arte: Ars
summa; materia optima melior (c
Idem Ib.)…. Il Sardo non ebbe ancora il pregio proprio dell’arte, onde tante
lingue dell’Europa divennero colte, e pulite; ma il miglior, e il più bel
pregio, proprio dalla sua materia, e dal fondo dei suoi vocaboli, e de’ suoi
idiotismi…. A ben giudicare però dall’eccellente materia, o dal fondo della
nostra lingua Sarda, è d’uopo che la consideriamo primamente ne’ suoi principj,
secondo ne’ suoi progressi; terzo nel suo stato presente. Nell’osservare i suoi
principj, noi ravviseremo in essa un’antica, e molto nobile origine, I.
Osservazione: nell’osservare i suoi progressi, noi troveremo in essa un
complesso de’ migliori dialetti, II Osservazione: nell’osservare il suo stato
presente, noi vedremo in essa la più grand’analogia colle due più universali
lingue del mondo. III Osservazione. Da queste tre osservazioni ne viene la
dimostrazione d’esser ottima la lingua Sarda, e d’avere nella sua materia de’
rarissimi pregi, onde allettare i Sardi a coltivarla.
Connesso a questo problema, anzi
direi consustanziale, vi è quello dello iato fra la lingua comunemente parlata
e quella frutto della elaborazione di cui si diceva; il problema cioè di
contemperare i due “stili”, le due variazioni diremmo oggi. Cosa non facile per
il Nostro:
Una sola difficoltà sembra
che potrebbe attraversarsi per non fare una tal riforma, cioè per conto del
volgo, il quale avido, e tenace, come mai sempre esso è di quanto si è messo in usanza, forse non
porterà in pace che alcuna mutazione si faccia quanto al proprio dialetto,
eziandio in una voce di esso. Ma la censura del volgo poco, o nulla dee
premerci in questa parte, perciocchè quella novità, che può farsi nel
ripulimento della materia del dialetto, oltre all’essere poca, e accidentaria,
verrà, s’è messa in ragione, come supponiamo che sia, pienamente approvata dal
consentimento de’ saggi, dietro a’ quali senza dubbio il Sardo volgo verrà altresì
a piegare a poco a poco, secondoch’esso è uso di fare in tutte quelle novità,
che ogni giorno accadono nel pubblico.
[…]
Con ciò però dir non
vogliamo che non s’abbia verun riguardo all’infima Sarda plebe. Anzi dee
aversene molto; maggiormente essendo questa assai gelosa di custodire, e serbar
intatto il deposito della purità, proprietà, e antichità della lingua, per le
quali le si concilia la venerazione, come men esposta alla mescolanza delle
lingue starniere, che co’ libri s’introducono, e col traffico, e commerzio de’
forestieri. Bisogna però che anch’essa sia presa in considerazione da noi nella
mutazion che faremo de’ vocaboli, o delle pronunzie del nostro patrio idioma,
disponendola ad essa, e trattandola con quella dilicatezza, che le nutrici
sempre usano nell’ispoppare i bambini.
Dunque una sorta di azione
dirigista entro la quale il popolo deve essere guidato, magari con benevolenza,
senza che possa o debba partecipare attivamente al processo propulsivo della
dinamica linguistica. Esso è un deposito imprescindibile di ricchezza, e va pertanto
tenuto in tutto il conto che merita; ma il popolo è in sé inerte, ed anzi,
forse, tendenzialmente frenante se non proprio ostile, pur tuttavia duttile e
malleabile. Ed è proprio in questa inerzia che sta riposto il tesoro della
lingua, in quanto la conservazione della nobiltà e della purezza di essa si
trova depositata e salvaguardata proprio in questa inerzia. Ed in questa docilità
è riposta la possibilità di lavorare abbastanza agevolmente su di essa.
Inoltre altro problema che il
Madao si pone e propone è quello della unitarietà della lingua. In questo egli
sta in linea con la modernità a lui contemporanea e, in generale, fino ad oggi
durevole quasi dovunque. La lingua nazionale deve essere e non può che essere
unitaria, né si può concepire una variabilità. Al Madao sono ben chiare le
linee della variazione diatopica della lingua sarda: egli è ben consapevole che
le parlate della Sardegna settentrionale sono allogene e di derivazione
italiana; ed è pure a conoscenza delle due macrovarianti sarde, quella del
settentrione isolano e quella del meridione; ed innesta questa differenza
sull’analogia della variazione diatopica del greco. Si tratterà allora di
scegliere una delle due (macro)varianti e di dedicarsi al ‘ripulimento’ di
quella. Ad una iniziale indifferenza fra le due, il Madao fa però
immediatamente seguire la preferenza per la macrovariante settentrionale in
quanto più conservativa e dunque più vicina e analoga al modello latino che si
impone, per lui, di per sé. E così come i Greci si diedero a ‘pulire’ i
dialetti loro migliori, allo stesso modo dovranno fare i Sardi.
Ben si può vedere quindi come il
Madao da un lato sia stato portatore di idee tributarie del suo tempo, tanto nei
loro stimoli innovativi, sorretti dalla temperie illuministico riformatrice
settecentesca, quanto nel limite costituito da un retroterra erudito e retorico,
e ‘viziato’ da un amor patrio che giunge ad essere mitico-ideologico e dunque fuorviante;
e dall’altro come egli abbia proposto una tematica ed una problematica, che,
sopite o addirittura obliterate per più o meno duecento anni, riemergono, certo
aggiornate e collocate in un contesto ben diverso, nel dibattito politico e
culturale contemporaneo sardo: dal problema della salvaguardia della lingua
sarda, a quello di scoprire in essa la marca fondamentale dell’identità
(nazionale); dal problema di rendere il Sardo lingua, a tutti gli effetti,
all’altezza di una civiltà e di una cultura moderna e complessa, a quello di
trovare una varietà sovralocale che superi il particolarismo localistico; dalla
rivendicazione della sua nobiltà e capacità, alla prospettiva di rendere
attuali le sue potenzialità ancora inespresse; dal dirigismo normativizzante al
riconoscimento del tesoro linguistico depositato nel popolo.
Il Madao, magari malgré lui, anticipatore, e forse pure seminatore del
futuro, oppure la perennità di una, magari innocente, irresoluzione tutta sarda?
Di una Sardegna la cui classe
dirigente – per dirla parafrasando Girolamo Sotgiu
– così come si era spagnolizzata, si è poi italianizzata senza riuscire a
sardizzarsi.
La sua opera linguistica va comunque
considerata con oggettività e in maniera, per quanto possibile, deideologizzata,
considerando il periodo in cui egli visse e i suoi travagli; se certamente
certe sue posizioni possono apparire attardate o addirittura antiquate, Matteo
Madao restava, per tanti altri versi, perfettamente al passo coi tempi; e, in
tempi in cui l’avanzare della ‘modernità’ – che non è mai un destino intrinseco
ed ineluttabile, ma tutt’al più un processo articolato e composito – non era
così lineare, mentre la tradizione della classicità manteneva tutto il suo peso:
infatti «come altri nell'Europa del Settecento, il suo [del Madao] era un
"patriottismo" cosmopolita, funzionale a un proficuo "traffico
delle lingue" e "de' libri scritti in quelle". Si sbaglierebbe
dunque a considerarlo un erudito lontano dalle conoscenze e dalla sensibilità
del suo tempo»
.
Tutto ciò assume una valenza ancora più forte se si pensa alla situazione
specifica della cultura sarda e in particolare della sua lingua. Qualora cioè
si tenga conto della mancanza, in Sardegna, di una tradizione
linguistico-letteraria forte e radicata; per tale ragione si può spiegare la
distinzione fra ‘natura’ ed ‘arte’ per ciò che concerne i, per lui, fattori
base di una lingua; ora il Sardo ha una buona ‘natura’ perché discende dalla
latinità e la conserva, mentre difetta di ‘arte’: è dunque questa ‘natura’ che
bisogna esaltare, ed è a partire da qui che deve avviarsi il processo di
elaborazione: il che porta a premere sul tasto della classicità. Ciò non
impedisce però al Madao di pensare che si possa prevedere un arricchimento
attraverso il contatto e lo scambio, pur certo controllato, con le altre lingue;
e attraverso l’apporto popolare, che costituisce per lui – e ciò non va mai dimenticato, né se
ne deve tacere la portata novatrice – il deposito base della lingua, da
acquisire anch’esso pur sotto vigile sorveglianza, ma senza nessuna
preclusione. La ‘stramberia’ eccentrica del Madao sta semmai, se si vuole osare
dirlo, nell’aver amalgamato ‘popolo’ (sardo) e classicità, in quanto è proprio
il ‘popolo’, anzi la ‘nazione’, ad esser stata la custode ‘naturale’ della
classicità e ad averne protetto e preservato l’essenza. Pertanto il
‘ripulimento’ della lingua sarda che il Madao metteva, con più che un pizzico
di utopia, in atto, non può esser giudicato soltanto come mera e passatista
volontà di mantenimento di una tradizione retorico-classica: ‘ripulire’ per lui
significava far emergere, nella miglior essenza e in tutta la sua potenziale
modernità, lo spirito e il genio della nazione.
***
Maurizio Virdis
(Università degli Studi di Cagliari)
Matteo Madao
(o Madau), nacque a Ozieri, da Pietro e Martina
Sanna il 17 ottobre 1733.
Studiò grammatica e retorica presso i gesuiti del paese natale
e, già quasi ventenne (18 aprile 1753), entrò nella Compagnia. Fu novizio a
Cagliari nella domus
probationis della provincia
sarda, vivace comunità di giovani provenienti da ogni parte dell'isola, dove
completò gli studi inferiori. A Cagliari, il 29 aprile 1755, prese gli ordini
minori e la prima tonsura. Destinato allo studio e all'insegnamento, si
trasferì nel 1757 nel collegio di Iglesias, dove insegnò grammatica, e nel 1760
in quello di Alghero, dove intraprese gli studi superiori e insegnò grammatica
e retorica.
Nel 1763, alla vigilia delle riforme dei due atenei sardi,
giunse a Sassari, nel collegio di S. Giuseppe, dove completò gli studi di
filosofia e intraprese il corso quadriennale di teologia: visse qui il momento
più delicato delle riforme scolastiche sabaude, quando il ministro G.B. Bogino,
varati i nuovi ordinamenti delle scuole inferiori, si accingeva a estromettere
dalle università le comunità gesuitiche locali (espressione della vituperata
cultura spagnolesca) e a rilanciare gli studi con un corpo docente radicalmente
rinnovato. In particolare, mentre il collegio gesuitico sassarese si preparava
a reagire alla perdita del controllo sugli insegnamenti, il ministro reclutava
dai collegi della penisola, d'intesa col generale della Compagnia e con i
gesuiti della provincia lombarda, i professori per le facoltà di arti e
teologia.
M. apparteneva a una generazione di studenti solo marginalmente
toccata dalle riforme; tuttavia finì nell'occhio del ciclone quando il suo nome
comparve nella lista dei gesuiti sardi che il provinciale, il p. P. Maltesi,
aveva proposto per ricoprire le cattedre vacanti dell'Università riformata (è
"un gran genio delle lingue orientali, e ben istruito nella greca",
aveva scritto a Bogino, proponendolo per la cattedra di Sacra Scrittura).
Nel 1765, era stato ordinato sacerdote. Negli anni successivi
l'insegnamento nelle scuole dell'Ordine fu il suo impegno prevalente: dal 1767
peregrinò tra Ozieri, Cagliari e, di nuovo, Sassari (ma nel collegio Gesù
Maria), dove nel 1773 seppe della soppressione della Compagnia. Per il M.,
ormai quarantenne, che aveva pronunziato i voti solenni solo tre anni prima, fu
un colpo durissimo. In Sardegna, dove la Compagnia contava più di 300 membri,
le disposizioni attuative del breve di Clemente XIV assegnavano ai professi che
intendevano vivere in comunità due principali residenze: il collegio di S.
Giuseppe a Sassari, dove già erano i docenti universitari, e il collegio di S.
Michele a Cagliari, dove il M. si trasferì e dove trascorse il resto della
vita, dividendosi tra le attività di devozione, gli studi classici e le
predilette ricerche linguistiche.
N1782 pubblicò a Cagliari il suo lavoro più significativo: il Saggio d'un'opera, intitolata Il
ripulimento della lingua sarda lavorato sopra la sua analogia colle due matrici
lingue la greca e la latina, primo studio sistematico sulla lingua sarda e
tentativo già organico di rivalutarne le origini e il ruolo, di ricostruirne la
grammatica e le etimologie e di predisporne un dizionario, peraltro incentrato
sui vocaboli di derivazione greca e latina.
Malgrado
i limiti di una cultura relativamente provinciale, il M. fu un interprete precoce
delle inquietudini di tipo identitario che serpeggiavano nella società isolana.
Non a caso l'orgogliosa e commossa riscoperta delle tradizioni e del ricco
patrimonio poetico-musicale delle popolazioni dell'isola divenne il fulcro
della sua seconda importante fatica letteraria, Le armonie de' Sardi (Cagliari 1787).
La
terza, significativa opera del M., Dissertazioni
storiche apologetiche critiche delle sarde antichità (ibid. 1792), fu
il coronamento del suo programma "patriottico": intrecciando disinvoltamente Sacre
Scritture e autori classici, falsi conclamati e "autori
favolosi", l'ex gesuita si spinse verso la più remota preistoria, con una
farraginosa narrazione biblico-mitologica delle origini della "sarda
nazione".
Peraltro, il M., pur autore di testi che tanto contribuirono a
forgiare i sentimenti e la cultura politica dei patrioti sardi, non risulta né
tra i protagonisti né tra i testimoni partecipi delle vicende che sconvolsero
la vita pubblica del Regno tra il 1793 e il 1796. Nella vasta documentazione
sulla "sarda rivoluzione" l'unico riferimento alla figura e all'opera
del M. sembra essere un avviso del Giornale
di Sardegna, gazzetta del movimento patriottico, che nel marzo del 1796
raccomandò le Dissertazioni
storiche avvertendo i
lettori che difficilmente avrebbero potuto trovare "in un altro libro
certi aneddoti e pezzi di storia patria che qui si contengono”.
L’ex gesuita non esitò invece a gettarsi in polemiche religiose:
nel 1784 con una focosa Lettera
apologetica aveva
strapazzato il domenicano G. Hintz, professore di Sacre Scritture a Cagliari,
per la sua versione del salmo Exsurgat
Deus. Nel 1792 stampò clandestinamente e sotto pseudonimo una requisitoria
contro il presunto ispiratore di un anonimo opuscolo che lo accusava di
profittare della credulità popolare rinverdendo i fasti dei miracoli
eucaristici e della "frequente comunione". Instancabile promotore
dell'uso dell' "idioma patrio" nelle cerimonie religiose e nelle
pratiche devozionali, il M. aveva pubblicato, l'anno prima, la Versione de
su Rythmu eucharisticu cun
paraphrasis in octava rima, facta dae su latinu in sos duos principales
dialectos, traduzione in sardo logudorese e campidanese di alcune
preghiere e del celebre ritmo Adoro
te devote attribuito a
Tommaso d'Aquino.
Nel 1799 nel corso della permanenza della corte sabauda in
Sardegna, Carlo Emanuele IV gli concesse una pensione sulle rendite della mitra
cagliaritana. Conquistò la stima di Maria Clotilde di Francia, cui aveva donato
un suo profilo biografico di G.B. Vassallo, gesuita piemontese morto a Cagliari
venticinque anni prima, in odore di santità. Tra gli inediti, i biografi
ottocenteschi segnalano una Relazione dell'invasione della Sardegna tentata
dai Francesi nel 1793 e un Catalogo
istorico di tutte le più illustri famiglie sarde: ma di esse si era
perduta traccia già nel secolo XIX.
Degli ultimi anni di vita del M. s'ignora quasi tutto, inclusa
la data di morte: i primi biografi concordano per il 1800 (a settembre, secondo
Martini), ma i Quinque libri cagliaritani
non ne recano traccia.