sabato 14 novembre 2009



Intervento letto all'Incontro interuniversitario di italianistica: cultura italiana, cultura europea, cultura mediterranea. Cagliari 11-12 novembre 2009. Dipartimento di Filologie e Letterature moderne dell’Università degli Studi di Cagliari


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Vorrei partire dalla coda, in questo intervento odierno, da quelle due poesie inserite nella seconda edizione del suo canzoniere, delle sue Canzonis, l’edizione Della Torre del 1992 appunto: si tratta, come già detto, di No m’arrechèdi’ nì pani, nì femina, nì canzoni e Canzoni nuraxi. Sono composizioni queste che segnano l’acquisita maturità poetica di Benvenuto, ed anache un mutamento nel suo stile compositivo che se da un lato si distacca da una maniera più cantabile o comunque più piana e scorrevole, per diventare scabro e vicino a una prosa ritmata, dall’altro proprio questa acquisizione può segnare un ritorno alle origini della poetica del nostro Autore, alla sua esperienza di sperimentalismo poetico.

Se già nelle composizioni precedenti, Lobina aveva abbandonato sia la rima che il verso regolare, qui ci troviamo davanti a qualcosa che sta fra un verso assolutamente libero e una prosa densa di echi metrici e di richiami fonici interni.

Non solo, ma questo partire e seguitare a ritroso come sto facendo restituisce lume e senso alle composizioni precedenti e ne illumina il valore innovativo, che potrebbe invece andar perso, senza queste ultime prove, e andar incontro a un giudizio sommario di poesia topica, solita e già sentita, incentrata, come potrebbe sembrare, su una parola troppo facile, su l’ovvietà del canto memoriale, su una adesione sociale che sa di lamento noto, ma che comunque significa una acquisita e cosciente dimensione sociale e civile che in quegli anni, anche in Sardegna, tocca le corde di molta poetica. Considerato però alla luce di queste nostre due ultime canzoni, tutto il canzoniere lobiniano assume la figura di una parabola (auto)biografica poetica.

La Canzoni nuraxi pone il problema, e allo stesso tempo l’ ansia, della ricerca di una parola, una parola piena, poetico profetica, che sembra mancata alla società e alla cultura dei Sardi, che pur non difetta d’Idea. Una parola che sappia dire del sapere pragmatico, di cui questa cultura e civiltà è pur dotata, che sappia cantare il sapere della mano, delle cose concrete che sono fin lì parse indegne d’una parola elevata da tramandare al futuro. Un sapere che invece non deve andare disperso, per esser detto non solo alle future generazioni, ma al mondo. È una poesia aspra e scabra, ricca di metafore e di materia sottaciuta che genera lacune semantiche che il lettore è chiamato colmare, pescando nell’intertesto tanto del canzoniere, quanto dell’enciclopedia ideale e poetica compartita. Sembrerebbe quasi una sconfessione della poetica fin qui seguita dall’Autore, se non fosse che il nodo ideale e il groppo sentimentale rimane il medesimo invariato. Egli aveva già infatti cantato il concreto, la minutezza del mondo paesano, i suoi travagli, e, a un tempo, la sua universalità a partire dalla specula del proprio io poetico. Una universalità che ora si fa veramente tale dopo che Lobina ha superato la fase intimista e di ricerca del sé.

E dunque. Dunque in principio era l’idea, innantis fu s’idea, dice il poeta; e tutta la composizione ruota intorno a questo blank: al dover comprendere quale sia questa idea, di quale idea si tratti. Idea di origine sconosciuta, che non si sa donde provenga, si sa che ha passato il mare, attraverso un viaggio incerto, arrischiato e abbacinato, e, come ali di vento che si coagulano, si è posata qui, nel qui del poeta, nel qui del suo e del nostro ‘noi’. Idea però dal viaggio non felice, contrastato da divinità avverse, e non accompagnato da parole profetiche, né da consigli o da aiuti materiali. Idea grande e di grandezza, ma disarmata della parola. E dunque non ha potuto né saputo porre radici, non ha potuto spaccare la terra per poter avvicinare luoghi e uomini: idea che non s’è fatta civiltà, né territorialità, né bandiera che aggreghi le genti attorno a sé: è rimasta un’idea dispersa, virtuale, non attualizzata: idea che non s’è fatta verbo. Non ha consegnato in parola alcun messaggio al lavoro che pure, essa idea, era capace di fare e di concepire, perché troppo invischiata nella manualità pragmatica.

E allora invano, ora i discendenti di coloro che quella idea hanno incarnato, elaborato, lavorato ma non detto, cercano invano un passato di gloria: assenti parole di grandezza e di conquista: gli antenati si sono vergognati di lasciar parlare la materialità del loro lavoro, e il loro lavoro non ha fruttificato, non ha lasciato traccia, sì che il poeta non ha di che cantare. E la sua canzone abortisce. Perciò il poeta va cercando fratelli, i propri fratelli che gli dicano di sé della loro condizione, del proprio essere, del sapere delle loro mani ancora mute.

Se questa canzoni di Benvenuto Lobina non fosse intitolata Canzoni nuraxi, se fosse senza titolo, o con un titolo che non desse rimandi alla Sardegna, non verremmo a capo forse della consapevolezza di un passato di cui ci sono le tracce possenti, ma non la storia: ma poiché d’essa la posterità ha bisogno, essa deve essere ricostruita, starei per dire per via antropologica, attraverso l’interrogazione degli eredi, sia pur meno grandiosi, di quella civiltà, affinché il poeta odierno possa dar loro un senso, una voce, una parola, affinché le ardite architetture di pietra del passato diventino architetture, costruzioni di parola. È dunque il titolo che risolve il blank di cui si diceva, ma allo stesso modo questo contenuto è detto attraverso un blank virtuale, attraverso una isotopia sottesa ma non esplicitata, nei cui confronti il titolo funge sì da catalizzatore, ma non esime tuttavia il lettore dal lavoro e dal dovere di aggregare e di coagulare i frammenti del discorso poetico.

Questo componimento se da un lato è un rimpianto per un passato deverbalizzato o averbale, dall’altro è la soddisfazione per un’attività poetica da fondare, per una sardità poetica da trovare, nel senso pieno del termine; per dar voce poetica alla lingua del concreto, in una compiuta poiesis da ricercare. Una poetica che non ha alle spalle la tradizione, ma necessita della ricerca: la ricerca di una lingua, poetica appunto, e sarda, che trovi, data tale mancanza di una tradizione, le radici nella stessa materialità in cui essa si è incarnata. E così il componimento torna circolarmente su se stesso, infatti esso era cominciato con la non frase, con una ellissi che è questa:

Cun custus fueddus imenguaus, indollorius, disprezziaus,

fueddus imprestaus, fueddu’ burdus, arestaus,

fueddus angariaus.


Cun custus fueddus trobius.



La poesia di una non retorica, o di una retorica nuova, antropologica ribadirei, che dà valore anche a parole svilite, disprezzate, spurie, imprestate, impedite. Vera avanguardia matura, si potrebbe dire.

Più personale e soggettiva è l’altra delle due canzonis di Benvenuto, No m’arrechedi nì pani, nì femina, nì canzoni. Una poesia di viaggio e di abbandono, come s’è già detto; parrebbe un’altra poesia sul tema dell’emigrazione, tema ricorrente in Lobina. E forse pure lo è. Ma c’è un sovrappiù di unheimlich, forse un eccesso di spaesamento, perché il componimento possa essere proiettato sullo schermo di una tematica esclusivamente sociale. Emigrazione dell’io quindi piuttosto. Un io che tende a universalizzarsi nel destino della comunità? Oppure un’io che vede il proprio destino di distacco, il proprio tutto interiore sradicamento dal mondo nelle forme dei molti che si sono sradicati, costretti, dalla propria terra? Mi parrebbe proprio quest’ultimo il caso: è commente chi sia partendu a callincuni logu tristu, dice infatti il testo al v. 2; e ancora: T’essi pótziu salludai cun d’unu muccadoreddu / comenti fai’ donniunu candu pàrtidi amarolla (vv. 7-8). Un distacco, un’emigrazione forzata, un esilio esistenziale quindi. Ed ecco lo spaesamento che assume i contorni e i colori della rêverie, se non di un incubo, quanto meno un’angoscia onirica: “da qualche parte il capostazione mi starà aspettando passeggiando accanto al treno” e parenteticamente viene aggiunto “(Sa notti scoriosa, su scacciacqua nieddu,/sa luxi ’e su lantioni, sa strossa, s’arrellogiu)”, un paesaggio interiore, fatto di immagini, dicevo, straniate e che subito si interiorizza in una cascata di metafore. E non solo quindi distierro e abbandono, ma anche spossessamento: deprivato e derubato è l’io dei fiori e del sostentamento alimentare basico, del pane e del formaggio. Non solo ma quest’io è stato scutu spollittu de circufróngias fingius (‘sbalzato da arcobaleni finti’): dove, qui pure, si sta fra l’intimismo individuale e l’impegno sociale; fra la disillusione di un’esistenza più che matura, prossima alla separazione dal mondo, e la caduta delle speranze di rinascita economica e sociale dell’Isola, resa impossibile da una politica incapace e tutt’altro che lungimirante. Segue e continua il paesaggio alienato, ma su temi di tipo sociale o collettivo: sa terra appettigada de cuaddus furisteris /allattàda arrexini’ de forestas devastadas (‘la terra calpestata da cavalli stranieri/allattava radici di foreste devastate’).

Ambivalente è poi il tu cui è rivolto il componimento: si tratta di una persona, una persona amata, un amico, o è la terra che si abbandona e che non può essere condotta in compagnia di sé? Sembrerebbe quest’ultima l’ipotesi più probabile, visto l’accenno marcato alla devastazione di una terra calpestata da piede straniero, che ha sbalzato l’io dai finti arcobaleni. Ma non resta esclusa neppure la prima in una straordinaria fusione e intersezione sinfonica di questa doppia tastiera lobiniana. Tutto è mutato nel segno del disordine: Ammacchiaus ‘s trenus, su ’eranu, s’obrescidroxu, / de logu tristu a logu tristu comenti ti pozu portai? (‘Impazziti i treni, la primavera, l’alba/da luogo triste a luogo triste come ti potrò portare?’). L’unica chance è l’indifferenza sentimentale, o meglio la resistenza al sentimento, l’indurimento del cuore, l’oblio:

Coro miu, coru miu, pesa murallas a cellu

Chi no passi nì pena, nì ternura, nì pensamentu;

poni scruzoni’ nieddus a guardia de sa tancadura

chi nisciunu scarìngidi is portas a sa memoria

(vv. 22-26)

(‘Cuore mio, cuore mio, innalza muraglie fino al cielo/che non penetri né pena, né tenerezza, né preoccupazione/poni nere serpi a guardia della serratura/che nessuno socchiuda le porte alla memoria’).

Ed anche l’idea e la speranza di poter essere il primo che a mani nude e disarmate va a cercare le stelle e il primo mattino del mondo, si scontra contro il cielo basso sopra cammini che si perdono nella notte. E tutto si spegne: la lampada d’altare, l’ultima stella, i sogni miei e i tuoi. Resta – e testualmente vi si ritorna con reiterazione– sa strossa e su scoriu che allùppanta su lantioni, soffocano la luce del lampione della stazioncina mentre il fazzoletto del saluto pende da un ramo secco: anche l’addio è negato.

Poesia della disillusione, dell’addio e dell’abbandono; con valenza di una metafisica che si pone al centro di una pendolarità che oscilla fra onirico e metaforico; descrizione di un paesaggio interiore, forse della avanzata età matura del poeta. E di una maturata consapevolezza che porta l’io e l’Autore a identificarsi, attraverso la polisemia che abbiam detto, con la propria comunità, con il proprio mondo. Il primo mattino del mondo è un qualcosa, per il soggetto tanto individuale quanto collettivo, da conquistare à jamais. Forse quel qualcosa espresso dalla poesia successiva, ma che abbiamo analizzato precedentemente: quello di una ricerca per la conquista della parola.

Poesie di snodo queste ultime canzoni di Benvenuto Lobina, e di snodo doppio: perché esse, da un lato, risignificano l’attività poetica precedente e da questa ne sono significate. Ma anche perché, d’altro canto, esse si pongono come un ponte fra le scritture poetiche e le scritture narrative del nostro Autore, sempre felicemente in bilico, soprattutto nell’età matura, fra questi due versanti della scrittura. Scrittura che manifesta una versificazione prossima alla prosa ritmica, ma con emistichi o versi regolari sapientemente calcolati, dislocati e disposti che creano l’impressione di una meditazione posata e riflessa; mentre la sua prosa, in specie quella dei racconti, non solo si tinge di echi lirici, ma di lirica si impasta. Narrazione che, impostata sulla cifra della metafora, si pone sul limitare di una testualità allegorica, pur, e sapientemente, senza varcare quel limite.

Le ultime canzoni ricapitolano insomma l’attività precedente, quasi in una petizione giustificativa o di licenza allo scrivere che l’Autore chiede, a posteriori, a se stesso. Non solo, ma esse si pongono a conclusione di un iter progressivo di acquisizione poetica e formale da parte di Benvenuto e implicitamente lo espongono e lo manifestano, limandone le asprezze o riassorbendole entro una poetica (ri)trovata e resa esplicita.

Senza di esse capiremmo meno la complessa valenza della prosa di Benvenuto Lobina, e in particolare dei suoi racconti, anch’essi, nel complesso della triade da questi costituita, oscillanti fra io e mondo, e visti dalla specola di un io innocente; questi racconti recuperano una lirica memorialità dell’Autore trasfigurata nella favola. Un mondo anche qui al limite, sul bordo della fantasia e dell’irrealismo; dell’esperienza liminare della dinamica psicologica del puer aeternus che è in ognuno, raccontata fra allegoria e metafora.

In Iacu e su lioni il processo di crescita e del diventare adulto del protagonista è narrato da una voce che, in terza persona, guarda al mondo e alle cose con gli stessi occhi ingenui e infantili di Iacu, e ci riferisce come realtà oggettiva la visione di lui, favolosa e fantasticante che abolisce il confine fra l’immaginato e il concreto. Una visione incancellabile, quella per cui il leone dipinto sul soffitto dalla perizia pittorica e illusionistica del parroco Nicolao Ligas, padrino del bimbo, diventa agli occhi fantastici di Iacu un leone vero che lo accompagna inseparabile e gli dà coraggio e forza aiutandolo a crescere. Quando, adulto, Iacu tornerà al paese, a Biddanoa, il leone non c’è più sul soffitto della sua camera, il soffitto è stato imbiancato, e su di esso «fut abarràda sceti una mància, un’umbra». Il processo di crescita è compiuto, Iacu è diventato adulto e i fantasmi immaginari si sono dissolti. Ma restano due cose: quella macchia, quell’ombra sul soffitto, anche qui fra metafora e realtà, residuo ultimo del leone svanito che si fa simbolo del processo di crescita di cui l’immaginario è elemento costitutivo e imprescindibile: reale, durevole e indistruttibile ombra dell’/nell’anima: un ‘fanciullino’ interiore. Ed è rimasto il maestro pittore, l’artefice del leone, il padrino di Iacu, sua ombra e suo alter ego: resta cioè don Nicolao, pur paralizzato alle gambe in seguito a una caduta mentre dipingeva sull’ennesimo soffitto l’ennesimo leone. E ora, seduto sulla sua sedia d’infermo, don Nicolao se ne sta in solitudine «castiendu sa bòvida, chini scidi eita ddu at a biri». Resta insomma l’artista, perso nella sua illusione: egli aspetta che la visita del suo innocente ammiratore da lui ‘illuso’, gli ridia consolazione e vita interiore. Forse in quella visita Iacu ritroverà il suo leone. E il racconto di Lobina si fa liricamente metapoetico; assolutamente avvicinandosi a quella poetica di cui abbiamo appena parlato a proposito di Is urtimas canzonis.

Senza le quali ancora non capiremmo l’ardire poetico, estremo e meraviglioso, di In d’una dì ’e soli, la storia di un amore, quello di Stévuni per la sua asinella Susanna rimasta orfana della madre poco dopo la nascita. L’ ‘irrealismo’ di questo racconto è dato dal fatto che l’Autore attribuisce, per il tramite della voce narrante, sentimenti e atteggiamenti umani all’animale, all’asinella Susanna. Il normale comportamento animale è risignificato dalla voce narrante tramite l’ottica del protagonista, che viene così oggettivizzata rendendo reale il punto di vista soggettivo. Un ardire che sottrae, con lirica sapienza, ogni sconveniente scoria d’impurità alla ‘naturalità’ dell’amore; citerò soltanto poche righe, quelle conclusive del racconto:

su disìgiu ’e Stévuni fu’ mannu che i su xelu: furriadì, Susanna, oh, Susanna. Si fudi incrubau, si ddi fudi stendiau a assuba, su tebiori ’e Susanna e i sa callentura sua, su disìgiu imoi fu’ che una soga chi ddus trogà’ tot’a is dusu.

E fud’intrau in su xelu.

Ogni residuo impuro o maligno viene sottratto all’innocenza e dall’innocenza infantile che si specchia nella naturalità animale, altrettanto innocente metafora dell’amore disinteressato, e ciò per il tramite del ‘punto di vista narrativo’: attraverso il quale parla il ’fanciullo’ e l’istanza che lo sorregge in esso incarnandosi.

Oppure v’è ancora la folle credulità dello strampalato Arrafieli Palmas, che non si sa bene se sia un millantatore che vanta un’incredibile e amicale confidenza nientedimeno che con Sua Maestà d’Italia Umberto I e con le dame di corte alle quali insegnava, pensate un po’, la lingua sarda:

Palmas fut su spàssiu de totu sa corti, ma non poita calincunu s’indèssit fattu befas, ma poita… Palmas fut Palmas, un personaggio di un altro mondo, comenti naràt Margherita, unu chi a corti parìat nàsciu e pesau, e no ddu ìat dama o dignitario chi no s’èssit frimau a arrexonai cun issu, si ddi capitâda a tretu, mancai Palmas èssit fueddau feti in sardu. E chi no ddu comprendìat peus po issu. «Impara su sardu, chi mi ’ollis cumprendi» – narât Palmas. E parìat chi su sardu calincunu dd’èssit imparau diaderu. Finzas e una dama, a quanto si dice in giro, aveva preso qualche lezione in privato…

Un millantatore, appunto, o forse meglio un ingenuo uomo di villaggio che non conosce le astuzie e le complicatezze della città e del mondo, e soprattutto è inconsapevole delle distanze interpersonali che lo reggono; finché dovrà scoprire tutto ciò nella calcolata e cinica freddezza del potere, incurante della tragedia che improvvisamente accade. In mezzo alla tragedia, Arraffieli saluterà il re, col sua Bonas tardas Magestà!, ma con un risolino amaro che segna la sua propria presa di coscienza: la comprensione di uno iato semiotico, la plurivocità delle parole e dei gesti, la complessità del significare.

L’uomo ruvido, ingenuo e paesano si fa disincantato poeta, poeta di se stesso e doppio dell’Autore. Di un Autore in cui verso e prosa non hanno un confine netto che li separi e inventano una lingua.

Notizie su Benvenuto Lobina.

Vissuto fra il 1914 e il 1993, nativo di Villanovatulo nel Sarcidano, Benvenuto Lobina fa le sue prime prove poetiche fin dall’adolescenza e nella prima giovinezza aderisce al movimento futurista. Milite nell’Africa italiana, perde, già da prima della guerra di Spagna, la sua fede nel fascismo, che come tanti giovani di allora lo aveva illuso. Gli anni Cinquanta e Sessanta sono i più fecondi per la sua produzione in versi; e diverse sue poesie appaiono su La Nuova Sardegna, a Sassari infatti Benvenuto ha stabilito da anni la sua residenza. Nel 1974 pubblicherà, per la Jaca Book, la sua raccolta di poesie dal titolo Terra, disiperada terra, riedita poi dalle Edizioni della Torre nel 1992, col titolo Is cazonis, cui ai componimenti della prima edizione, ne vengono aggiunti altri due: No m’arrechedi’ ni pani e Canzoni nuraxi. Nel 1984 termina il romanzo Po cantu Biddanoa che vince il premio “Casteddu de Sa fae” di Posada, il romanzo viene pubblicato nel 1987, con versione italiana a fronte, dalla sassarese 2D Editrice Mediterranea, e ripubblicato poi, nel 2004, a Nuoro, dalla Ilisso Edizioni. Nel 2000, per l’editrice Poliedro di Nuoro, appaiono tre suoi racconti: il primo, Iacu e su lioni, già edito, gli altri due, inediti e postumi, sono In d’una dì ’e soli e Bonas tardas, Magestà’; quest’ultimo – ci informa Anna Serra Lobina nella nota bio-bibliografica premessa all’edizione del 2004 del romanzo lobiniano – doveva costituire il primo capitolo del secondo romanzo di Benvenuto, mai portato a termine; tale capitolo fu poi adattato dall’Autore in forma di racconto autonomo.

Il nucleo poetico attorno a cui si concretizza la scrittura poetica di Benvenuto Lobina è quello della distanza-vicinanza col proprio paese d’origine, Villanovatulo, microcosmo e sua patria affettiva. Piccolo mondo da cui poi si diparte una visione più larga che va ad abbracciare l’intera Sardegna in una considerazione tanto emotiva, quanto morale, e, almeno latamente, politica. Poesia della nostalgia e del rimpianto di un mondo che egli ha perso prima di tutto col diventare adulto: e dunque poesia dalla tinta esistenziale innanzitutto, della delusione della vita, quasi dai toni intimisti, fra leopardiani e pascoliani, se non fosse però che tutto ciò si innerva su considerazioni politiche e sociali che ne accrescono il respiro, distendendosi su un tessuto metrico particolarmente innovativo, se non altro in una Sardegna che da qualche decennio va tentando – e tanto spesso con successo – il suo rinnovamento poetico letterario per mettersi al passo coi tempi nuovi, con risultati assai spesso di originalità. E in questa originalità conquistata ben si inserisce il Lobina che cuce versi liberi e perfino ‘prosastici’, ma sapientemente modulati su ritmi anche tradizionali che si intromettono nel disteso colloquiare interiore che rifiuta cadenze troppo manifestamente ritmate.

venerdì 16 ottobre 2009

Lo stato della politica linguistica in Sardegna. Analisi, idee, programmi, iniziative. CAGLIARI 20 ottobre 2004, ore 18,00 Via Trentino, ERSU Casa de



Limba, de limba seus chistionendi: limba poita? Ap’essi mancai strollicu e isfadosu, ma s’ap’a nai chi sa limba est po s’identidadi. Po s’identidadi, eja: ma tocat a biri perou in cali manera depeus tenni acapiadus custus dus nominis de lingua e de identidadi, chene fai diventai sa lingua s’addoru de unu déu sbuìdu, chene dha torrai a unu “feticcio”, s’ìat a nai in italianu; ma tenendidha, sa lingua, in su consideru e in su contivizu giustu, cument’e cusciéntzia bera, cument’e un’aficu de cumpiri. Lingua cumenti ad essi carchi cosa chi’nci podeus acafai innìa su pensamentu e innoi su pensamentu etotu potzat agguantai, e si potzat isterri, e potzat mancai sestai unu ghetu d’esisténtzia: una “costante esistenziale”, in custus tempus chi si sun bortaus ‘post-resistenziali’. E totu custu, innanti de dogna consideru de giudu praticu e deretu. Ollu nai cun custu chi oi sa chistioni no est tantu de fai de manera chi is chi no comprendint s’italianu si potzant espressai e potzant fuedhai su sardu, custu problema oi pertocat pagu genti e sempri prus pagu: oi su problema est a s’imbessi, ca est cussu de torrai a fai imparai e imperai su sardu a is prus de sa genti, e pruscatotu a is giovunus, chi oi in die si dh’ant iscaresciu. E totu custu movendi de s’asssuntu chi s’educatzioni e sa sabidoria depit essi multilingue e plurilingue cun s’atuamentu chi su de tenni e connosci prus de una lingua est una richesa, e chi su de fai giogai e traballai prus de una lingua in intru de una conca, de una pessoni e de una personalidadi matessi no est unu perigulu ne po sa pessoni ne po dognuna de custas linguas: ca ind unu propriu logu poidint biviri e matucai prus linguas agiuendisì paribari. Pertochendi a custu, s’Univ. est fendi sa parti sua, e in sa FdL, mein chi traballu, tenus curricula, cursos de laurea specialistica e master de lingua e de cultura sarda, chi anti tentu e tenint fortuna e aggradessu intr’ ’e is discentis; e po custu abbisongiant de amparu e de essi afortigaus de su mundu de sa cultura e de is istitutzionis, po ca si potzant isprundi cun dicia.
Chini narat chi est mellus a imperai su tempus e s’atinu a imparai una lingua internatzionali, s’ingresu po esempiu e po primu, poita ca funti custas linguas is de prus importu e podint aberri is gennas a su benidori e ca funti custas linguas is prus de cabbali e profetu, cussas po s’assantai ind unu mundu globalizadu, chene perdi tempus e balìa cun is linguas de minorìa e de bidha: chini narat custu o non iscit it’est narendu o est fendu unu chistionu e un’arregionu ideologicu.
Certu podeus essi fintzas de acordu chi una lingua no est, de issa etotu, su funhoriu de s’identidadi, ca dhu scieus totus chi dhoi at linguas de minorìa chi no ant isterriu camineras po s’identidadi de is populus chi dhas chistionant, e scieus puru, a s’imbessi, chi dhoi at culturas e natzionis cun sentidu identitariu forti e intragnau chi no arrimant tali sentidu assuba de una lingua propria; ma si custu est beru, est perou fintzas beru chi in Sardinna su processu chi ’nd’ at bogau e ’nd’est boghendi sa lingua sarda de sa conca, de sa connoscentzia e de su consideru de is sardus est andadu i est andendi a paris cun su manìggiu chi ’nd’est sderrixinendi fintzas sa cultura sarda etotu de s’atinu comunu: bastat a si castiai a ingiriu cun ogu e coru sintzillu po dhu cumprendi e si’nd’agatai. Po s’agatai bèni de s’aponciu chi tenint medas pessonis candu si fuedhat e si chistionat de sardu e de sardidadi. E, po beni ch’andit, totu sa chistioni de su sardu finit po essi arrenconada in su furrungoni de su folclore: cumenti fessit carchi cosa chi podeus puru arregodai dogna tantu, mancai comenti arrexini antiga, po torrai a bogai carchi diciu sàbiu o carchi sciolloriu pibirudu; e mancai, in s’ora chi seus, po dha tenni cumenti un’ispantu denanti a su chi, sendu nostru ma chene dh’atuai, dhu castiaus cumenti istrangiu e atesu de nos etotu, de aici chi si castiaus, nosus a nosatrus etotu, cun sa propria mirada allena chi s’adderetant is furestéris.
Ma dhoi at perou carchi cosa chi aguantat beni totu custa faìna e frassu cuntivizu, e chi s’aponit traessa a totu custu manìggiu chi bolit isciarrocai su sentidu nostru chi nos iscerat: e custa cosa tosta, atzuda, abetiosa e po fintas tirriosa est sa lingua: a su mancu fintzas a candu s’abrarat, e si dha lassant, fintzas a candu dh’eus a podi agguardai; sa lingua, seu narendi, cussa bera e bia, sa lingua de sa vida, impitada in sa vida e po contai e narai sa vida (e no scéti po cantai mutus, mutetus e batorinas de una ìa, o po contai carchi contixedhu de forredha de is mannus antigus). Sa lingua, fintzas a candu est vida, no est facili a dha mantenni aintru ’e is lacanas de su folclore. E insaras est po custu chi is chi bollint ponni in olvidu su sentidu beru e intragnau de una cultura, inghitzant propriu fendi scaresci sa lingua, boghendi a pillu calisisiat arreghescia po no dha fai imperai, mancai andendi a pagu a pagu in custu andongiu, caminendi a gradus, arredusendi una lingua, su sardu, in cussorgias sempri prus piticas, a intru de lacanas sempri prus istrintas: acorrendidha in su rodeu alindau de is paisanus de una propria bidha, in intru ’e is murus de domu, lassendidha imperai scéti mein ’s traballus prus antigus de unu tempus chi si ’nd’est andendi impari cun issus, fintzas a torrai su sardu a unu suspiu impitau de is piciochedhus chi si creint balentis. De manera chi, a facci ’e su sardu, est crescendi deddiora in su prus de sa genti sarda etotu unu sentidu presumìu, de sufficéntzia aponciada, unu sentidu, frassu, chi custa lingua no siat bona po sei matessi a narai totu su chi si bolit e si depit, ca su sardu no tenit is aìnas giustas e de giudu po espressai totu s’abisongiu de nai, po nai totu su chi s’astesiat foras de domu e foras de bidha, foras de is òrus istrintus de una vida atremenada in su pagu; est crescendi una cumbintzioni chi custa lingua nostra no potzat nai atru chi su chi est antigu, chi potzat nai scéti s’antigoriu, su chi est familiari o bidhunculu. Aici pensat su prus de sa genti, chene mancu de s’abizai cantu totu custu, atinadu o no atinadu chi si dh’apat, est su crumpimentu de unu ’etu ideologicu.
A nai chi su sardu no tenit capassidadis bastantis po espressai e nai su meda (mancai siat pretzisu de traballai ancora, e meda, po ’ndi bogai de sa lingua totu s’iscrusoxu suu, cuau e virtuali), a nai chi su sardu no tenit is fuedhus e peraulas bastantis: a nai totu custu est a nai una fartzidadi una cosa no bera. Iat a bastai a ghetai sa mirada ind unu ditzionariu ben’assentau, o, mellus ancora, a sa literadura sarda moderna chi s’est brotendi froris de ispantu: de lingua, de poesia e de prosa.
A nai chi is linguas de minorìa funti cundennadas a morri, e chi custa morti no si potzat istransiri, ca custa est sa bia e iss’andanta de su progressu e de sa modernidadi, custa est una bidea, funti fuedhus, custus, de una una sociologìa a stracu batatu, una faula neta.
A nai chi sa scéntzia podit scéti castiai su chi est acontessendi e dh’allistai in su registru de sa connoscentzia, e chi, in fatu ’e custu contu, sa linguistica podit e depit scéti castiai e marcai chi is linguas minoris funti morendi e atru non si podit, a nai e a fai diaìci est cument’a nai unu dotori chi ananti de su malàdiu atru no fait ca dhi nai chi est malàdiu renuntziendi a dhu sanai e a dhu sarvai, e lassendidhu morri; ma is malàdius e is linguas debilis e malàdias podint sanai e si depint sarvai.
Un’atra cosa chi medas bortas mi dimandu est poita est aici dificili, po sa politica culturali, a ponni sa lingua in sa lista de is cosas de agguardai, e a dha cunsiderai unu “beni culturali”. Fortzis poita ca sa lingua no est una cosa concreta chi si podit castiai e tocai, ca no est unu nuraxi o una taula pintada, e nemancu unu sedatzu o unu ciliru de si dhu scaresci in intru e unu museu; fortzis poita ca sa lingua est lévia che issa vida etotu, e che issa vida si ’nci iscapat i est mala a dha fai intrai in su stampu istrintu e grai de sa politica e de dogna programmatzioni: fortzis est po custu chi benit mellus a dha fai scaresci e dha minuspretziai: ei, a dha minuspretziai a su propriu de s’esistentzia, de su biviri, a su propriu de sa vida etotu. Ma sa vida torrat a nasci dogni annu e si no est de unu ’etu at essi de un’atru. E si morit custu sardu, custa limba, labai chi ’nci ’nd’est unu atera giai pronta mein ’s intragnas prossimas de su coru; dha seu intendendi deddiora, fintzas de sa picinnìa, zumiendimì mein ’s origas. Adhìa de dogni cosa; adhìa de dogni trobea, adhìa de dogni trampa, adhìa de dogni faula. Adhia de totu.
MAURIZIO VIRDIS

Su problema de s’aunimentu de sa limba sarda Il problema della standardizzazione




Convegno Sa limba: una questione ancora aperta. Valutazioni e proposte
Sorgono, 13 febbraio 2005, Sala della Biblioteca comunale, h. 9,30
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In logus medas e de meda genti, in custu tempus – ma giai deddiora – s’est boghendi a pillu su problema se s’aunimentu o, si dh’oleus nai, desa ‘standardizatzione’ de sa lingua sarda, comenti chi fessit custu su problema, sa tarea e sa faina numeru unu, chi, chene dha portai a cumprimentu, sa limba sarda, sceti po custu, iat a morri deretu.
Deu pentzu chi immoi, in custu momentu anca seus, su problema prus mannu po sa lingua sarda no siat cussu de dha fai bessiri parìvile e de dh’aperperai, de ’ndi circai unu ‘standard’; no est cussu de auniri totu is isceras de is fuedhadas chi si chistionant, ind una fuedhada scéti. Su problema primu cosa, sa chistioni de prus importu chi tenit su sardu, oi chi est oi, est cussa de podi torrai a biviri e de ’nci podi sighiri a aturai in vida, est cussu de si podi spraxiri aintr’ ’e is sardus. Su problema est cussu de un’imparongiu de sa lingua, est cussu de agatai e de cumprovai maneras prus de aggrabu po dh’imparai, ind un’ora che a custa, candu po sa prus parti de is giovanus su sardu est una lingua sempri prus desconnota o pagu connota, mascamenti mein ’s citadis: insandus faci ’e totu custu, s’iat a depi pentzai a maneras e a vetus de annestru diversus e chi s’indullant bort’a borta cuforma a is discentis chi is mastrus s’agatant deinnanti: bollu nai cuforma a su gradu de connoscentzia de su sardu ch’is piciocus podint tenni. E su chi pruscatotu si depi istransiri, su chi no si depi fai est un’imparongiu de su sardu cumenti una lingua istrangia, su chi, a parri miu, iat a donai pagu frutu e pagu cabbali, mascamenti intr’e cussus chi su sardu dhu connoscint prus pagu, e in cussas isceras de pessonis chi funti prus rempellas e arrevescias a dh’imparai. Su chi ’nc’iat a bolli duncas, prim’ ’e totu, castiendi cun mirada didatica, iat essi unu strumbulu beru e de fundoriu po imparai su sardu, un’intzidiu ch’iat a depi andai a su propriu paris de s’imparongiu de sa cultura, de sa scritura, e de s’arti sarda etotu. E totu custu, si cumprendit, movendi de sa lingua fuedhada cumenti est fuedhada abberu in sa realidadi de is bidhas, mein is comunidadis de dogna logu innoi si bivit e si fraigat sa vida de dogna dì, e die pro die, no imbentendusidha. Movendi de sa sabidoria manna e antiga achistia in is costumantzias de sa familia, de sa memoria e de s’istoria minuda innoi est cuau su scrusoxu de sa lingua, chi andat circau e iscobertu. E apitzu ’e innoi si podit o si depit alliongiai su chi eus a nai su ‘valori annuntu’ (il valore aggiunto) de un’impitu prus pensau , arrexonau e meledau de sa lingua, su chi scinti fai is artistas e is poetas, ma no scét’issus: de manera chi, intr’ ’e is atras cosas, si ’nci possat bogai de sa conca de is prus e mascamenti de is piciocus e piciocas, cussu sentidu chi su sardu iat essi una trobea e unu strobbu facia a cosas de prus importu, o peu ancora, una cosa de una vida chi no ’nci est prus arrenconada in s’antigoriu de logus istrintus. Aici de podi contai in sardu no s’impudu de su chi eus perdiu e chi no podit torrai, ma su disinnu de s’incrasi e de manera moderna: A fai biri, ’ollu nai, totu su chi su sardu tenit sa capacidadi d’espressai innanti de sa vida e de is bisongius de oi.
Adhia de sa chistioni de s’imparongiu, un’atru problema est cussu de favoressi e donai àxiu a una produsssioni de iscritura in sardu, mancai de isperimentu. A nai sa beridadi, in custus urtimus annus o dexina ’e annus seus a faci de una produssioni literaria in limba diaderu manna e bundanti e de cabbali: cosa ’ona custa e de aficu meda e chi si lassat isperai po su benidori, mascamenti po ca custa produssioni amustrat sa balentia chi sa lingua etotu portat intragnada, meda prus ancora si pentzaus chi adhia de sa poesia, chi in Sardinna est sempiri istetia acostumada giai deddiora, s’est afortziendi una iscritura de prosa, chi certu est mancu de costuma, ma chi s’est amustrendi sempri prus a s’artària de su proponimentu chi tenit. Seu pentzendi pruscatotu a s’abbilentzia chi tenit cust’iscritura, e a s’atonomia chi portat faci ’e s’italianu, chi a s’italianu sempri prus pagu su sardu dhi depit pagai datziu. Un’abbilentzia, ’ollu nai, e una boluntadi de scrucullai, in mesu a is arrexinis de sa lingua, in su ch’issa tenit chistiu e allogau, in s’arrichesa cuada, una gana, seu narendi, de circai is fuedhus e is peraulas, sa paraula, de nai e po s’espressai; amustrendi e comprovendi cumenti sa lingua sarda siat prus arrica de cantu no si potzat crei. Postu totu custu, su problema est insandus cussu de s’ispaniamentu de totu custa produssioni de iscritura; e prima ’e totu in sa bia de donai giudu e impellida a s’imprenta editora, balenti e atzuda, chi si ’nd’est atuaendi su carrigu de una faina che a custa. E po segunda cosa si depit donai ispicu a sa sienda imprentadora e editora, iat a tocai a dha isprundiri, a ’ndi donai su bandu (a ’ndi fai sa pubblicidadi s’iat a depi nai italianizandu) po ca potzat alcansai s’iscopu, po ca potzat arribbai a logus e tretus, astesiendusì in cussorgias prus mannas e àmparas in foras de is treminis istrintus de is cufrarias chi, mancai apentadas, funti perou casi cuadas in s’umbra si no asut’ ’e terra. Totu custu iat a donai s’idea de su balori e de cali capassidadi teni sa lingua sarda. Su de ispainai totu custu fintzas in iscola, si liat torra a su chi giai fia nendu deinnanti, a propositu de iscola e de imparu e annestru, e iat a sestai mein sa conca de is piciocus, a su mancu is chi tenint prus dilighesa a dh’intendi, arrexonis prus arrexinadas e cumbintas po un’impreu e unu imparu fungudu de sa lingua.
Ateras arrexonis si podint agatai aintru ’e una leada e cund una medida chi siat abberu plurilingue in s’essentzia. Bollu nai unu plurilinguismu chi no siat impitau scéti comenti e un’aìna pratica e de servitziu po is bisongius prus deretus, comenti, po esempiu, podit essi po su fatu ca in custu mundu est pretzisu a connosci linguas istrangias po ’nci arrennesci a isciri su chi acontessit infora de nosu, po s’infromai de su chi capitat adhia de su strintu nostru natzionali, o po si mantenni acaraus cun is strangius (e si giai est istrinta sa leada natzionali, imagineusì sa regionali!); nossi no est scéti cussu, deu pentzu: no est scéti chistioni de si ponni in contatu cun is atrus de atrus cirrus de su mundu cun iscopu praticu (cosa, custa, chi no ’nci tengu nudha ’e nai, ci at a mancai, andat bèni s’ingresu, chi ’nd’est bessendi de dì in dì su latinu nou de òi, isterridu in totu su mundu; e andat bèni puru calisisiat lingua mancai de foras de s’Europa, bistu chi cun s’infora de Europa eus a tenni contus e chistioni in su benidori innoi acùrtziu). Andat bèni totu custu, ma una pesadìa chi siat plurilingue abberu si podit fintzas fai (si no mi seu atrivendu tropu nendi custu) propriu cun is linguas minoris (minoris aici po nai), cussas propriu de domu, de una domu meinnoi su bilinguismu (est a nai s’impitu de sa lingua prus àmpara natzionali accanta de sa lingua minori regionali) innoi su bilinguismu, seu nendi, est cosa acostumada e fitiana, o mancai innoi su bilinguismu est una cosa imberta e virtuali: innoi sa lingua minori, fintzas si no benit impitada, abarrat e s’istentat asuta de su pillu de sa lingua manna. Un’esercitziu de bortadura de s’italianu a su sardu insandus iat podi èssi sa cosa chi podit atziviri abberu e cun profetu su prus mannu, po agatai su sentidu de s’identidadi, unu fatu de cabbali prus de milli atras cosas o imbentus o predicas. Poita ca s’identidadi no est cosa aici sintzilla comenti de pentzai sa difaréntzia cun su propriu sentidu de is pipius (chi narant: nosu, is Sardus, cumenti seus bellus e balentis, nosu chi seus istesiaus de is atrus, diversus de totus). Nossi, no est aici: s’identidadi est, a su contrariu, su d’acurtziai su chi est atesu, est unu perrogu supriu de is atrus; s’identidadi est a fai parìvile pari cun nosu su chi est allenu, ma manigendidhu a ghetu nostru e assentendidhu in su mundu nosrtu etotu; fendi cambiapari inta culturas e universus difarentis. Un esercitziu che a custu de passai de una lingua a s’atra de pentzai in mesu a duas linguas, un’esercitziu che a custu nos’ iat a podi amustrai cummenti cadauna lingua impreat una manera totu sua po tenni giuntus aintr’ ’e pari is sentidus e is significaus, una manera chi est diversa de una lingua a s’atra. E custu dhu podeus cumprendi pruscatotu candu tocat a espressai significaus, imbentus de menti e sentidus astratus, significaus chi si depint isterriri movendi de difarentis iscrocas concretas; est custu contivizu chi s’atuant su cervedhu e su fuedhu, maniggendi bartzigas e impitendi su suspu e s’iscromba, alleghendi a sbiasciu. Est innoi insandus chi podeus tocai cun is manus, e cun sa conca, cumenti sa diversidadi siat posta faci ’e pari cun s’identidadi, chene de ’nc’essi disamistadi intr’ ’e is dus; est deaici chi si ’nd’acataus cumenti una lingua ¬ - cal’est su sardu - chi no est meda acostumada a su fuedhongiu astratu ¬ ma scéti poita dh’anti allacanda in su concretu - e chi po tantu no est de su totu disposta a tratai is fuedhus astratus de un atra lingua, dhus podit acansai, custus fuedhus astratus, in domu sua etotu movendi e isterrendi propriu de su concretu cosa sua.

Bèni totu custu, ma beneus imoi a sa chistioni de cust’atobiu de òi, chi est cussa de s’unificatzioni de sa lingua sarda. Apu giai nau in s’isterrida de cust’arrelata, chi sa chistioni de s’aunimentu de sa lingua no est, in su momentu, a parri miu, su problema primargiu. Ma su chi mi seu dimandendi imoi est si custa chistioni si dha depeus ponni cumenti problema in facci ’e su benidori, e si est aici, po cali iscopu e de cali ghetu. Po meda genti su de s’unificatzioni, su de rendi parìvile totu s’iscera de is fuedhadas sardas, parit su problema prus mannu in s’aficu de una sorti diciosa po su sardu. Totu custu a mei, perou, parit prus chi atru su chi si narat unu feticcio, una màriga sbuida de sentidu, una chistioni no bera, no de sustantzia. A mimi totu custu mi parit su reflessu, sa magini torrada incuadas de atras istorias, de istorias de ateras linguas e culturas, nascias e crescias in tempus diversus, in cussorgias diversas e chi ant sighiu camineras diversas. A mei mi parit, totu custu, de si ’nci ’olli sprigai in s’istoria de is natzionis e natzionalidadis europeas modernas: cuss’istoria chi narat chi dogna natzioni depit tenni una lingua sua, e, pruscatotu, una lingua aunada e bona po su manigiu de totu sa natzioni artziendi asuba de totu su mudongiu chi s’agtat de cussorgia in cussorgia. Ma segurus seus chi nosu puru depeus/boleus torrai a fai sa propria esperiéntzia? Segurus ’ndi seus? mancai torrendi a fai is proprias fadhinas de cussus manigius istoricus? (chi, assora, funti stetius su de ’nd’ai bogau de mesu totu is difarentzias, totu is identidadis minoris e totu is sentidus de arrexinamentu e de apartenidura a su logu suu). Fortzis no seus in sa propria posidura chi si ’nci funti assentadas e afortziadas is linguas natzionalis in su passau de s’istoria. Òi seus de su parri chi su de coberai s’identidadi no depat ismenguai su balori de su chi est difarenti. Depeus partiri de s’idea 1) chi sa difarentzia est arrichesa; 2) chi s’imbastimentu, s’assentu e su vocabolariu de su sardu est sempri su propriu po dogna iscera de fuedhahda sarda; e duncas chi 3) su de isciri o de imparai una variedadi de sardu donat àxiu po cumprendi e po allegai fintzas is atras variedadis, 4) chi su chi ammancat a una variedadi dhu podeus agatai ind un’atra, diaici chi una podit crumpiri s’atra, mascamenti po su chi pertocat a su lessicu; e, 5) po acabbai, depeus pentzai chi aunimentu no bollit nai su de torrai totu a unu propriu pari.

A una unificatzioni, a un’ aunimentu, podeus fintza pentzai cumenti aficu e cument’e punna: ma su manigiu e su caminu po dh’acansai no at a podi essi cumandau e impostu de nisciuna autoridadi, ni podit essi cosa bessia de su taulinu de carchi sabiu, po cantu sabiu siat, ma at a podi/depi bessiri in foras (si dhu ’oleus) de sa faina pratica etotu, de sa scritura, de s’arti e de s’imbentu, e de su si fuedhai totu cantus impari is Sardus. E insandus est po cussu chi tocat chi dognunu imparit a primu sa fuedhada de domu e de bidha sua. S’aunimentu de totu su sardu podit essi pentzau cumenti carchi cosa chi no siat tostada e cìrdina, ma modhi invecias, e chi agguantit su mudongiu e indullat a sa difarentzia. Candu su lessicu, is peraulas, is fuedhus de dogna genia de fuedhada ant essi pratzius intra ’e totu cantus, insandus sa diversidadi, is diffarentzias anti a donai pagu strobbu e mancu irfadu; e custu mescamenti si ’ndi abbrandaus totu su chi iscerat tropu unu ghetu de fuedhai de un’atru, su chi est tropu liau a una bidha, a una cussorgia, a unu logu propriu, mannu o piticu chi siat, e si poneus ingrina a imperai cussas cantus variedadis aperperadas (i sub-standard) chi esistint giai.
Aparrat perou una chistioni, e est cussa de sa lingua de s’aministratzioni, in spetzia de s’aministratzioni centrali regionali. A nai su beru una proposta in custu deretu ci fiat giai stetia, imoi carchi annu fait, fut sa proposta de sa LSU (Limba Sarda Unificada). Cust’urtima at tentu, deu creu, prus d’unu meréssidu: si no est atru, su de ponni su problema, de scucullai imbentus arresurtus arrexonaus pruscatotu de sa banda ortografica, e in dogna modu a tentu su meréssidu de ai istérriu su problema e de ’ndi ai sucau sa dibbata e sa chistioni, e fintzas s’iscumbata intr’ ’e pensamentus isceraus, e totu custu ponendi a banda totu sa pelea e is cuntierras chi si ’ndi sunti pesadas a pitzu. Ma scieus fintzas chi custas peleas e cuntierras ’nci funti istetias puru, cun arresurtus de iscussentidura. Scieus chi sa LSU ’nd at pesau me’ is fatus scontrorius in totu su cab’e basciu de s’Isula, po ca est istetia fraigada asuba de is fundadamentas de is fuedhadas de su cab’ ’e susu e ’nd’ at iscancellau casi totu is piessignu campidanesus; e est nódidu puru chi custus scuntrorius ’nci funt istetius fintzas me’ is cussorgias de su centru e de sa band’ ’e susu de Sardinna. Ma puru atras arrexonis ant portau a arrefudai sa LSU (mancai no siant totu arrexonis atuadas): sa prima est chi sa LSU est una lingua fatisca chi no torrat a pari cun nisciuna fuedhada chi s’alleghit, e po custu est dificili a ’nci cunsentiri; po segundu custa LSU, mancai a fuedhus e a prima mirada, lessit logu a totu is fuedhadas naturalis chi si imperant in Sardinna, mein su fattu issa, sa LSU, allacanat custas fuedhadas in su strintu de domu insoru, e in s’impreu praticu scéti: in fatis sa proposta narat chi sa LSU est sa lingua de s’aministratzioni, de sa radiu, de sa televisionis, de s’imprenta, de sa publicidadi: e insandus ita dhi ’nd’abarrat a is fuedhadas beras e naturalis? Nudh’atru chi s’atremenadu, s’istrintu de domu e de bidha o pagu in prus! Aberendi deaici sa bìa a su folclore de custas fuedhadas e torrendi a curri sa propria caminera frassa de atrus tempus.

Insandus sa proposta chi si podit isterri est cussa de una lingua comuna e unificada chi potzat bàlliri perou scéti po s’amministratzioni centrali regionali e scéti in bessida, est a nai chi s’amministratzioni de sa Regioni sarda imprea custa lingua comuna po torrai arrespusta a chinisisiat dha preguntit po calisisiat cosa; ma, po atra banda, sa Regioni podit arreciri e colliri preguntas, mancai uficialis, in calisisiat scera de fuedhada sarda. Totu custu po ca de una banda, posta sa mancantzia de una lingua sarda comuna, sa Regioni no podit arrefutai nisciuna variedadi de sardu, de s’atera banda po ca non si podit pentzai chi sa Regioni etotu iscriat o alleghit in centu ghetus difarentis a segundu de s’impreau chi s’agatit, borta po borta, a respundi a sa genti, (in logudoresu si s’agatat un impreau logudoresu, in castedhaiu si s’agatat un’impreau castedhaiu), ne si podit pentzai chi si depat andai a circai una ’orta un’impreau chi respundat, aici po nai, in mamojadinu a is mamojadinus, un’atra ’orta a circai un impreau chi scipia su sedhoresu po arrispundi in sedhoresu a is sedhoresus, e un’atra ancora un’atru chi scriat in tempiesu a is tempiesus.
Scéti in custu sentidu e in intru de custus treminis e abisongiu si podit e si depit pentzai e agatai unu sardu comunu, a su mancu po imoi. E cali tipizu de lingua s’iat a depi scucullai e scioberai po cust’iscopu? Depeus torrai a fai is proprias fadhinas de ariseu? Depeus imbentai torra una lingua fatisca de taulinu, chi mancai ’ndi fatzat intrai carchi piessignu in prus de is fuedhadas de Campidanu? S’est giai bistu chi su fatiscu no est agradéssiu e no praxit meda, antzis no praxit propriu po nudha: e insandus si depit andai abbia de una lingua bera e fuedhada deabberu. Sa proposta est cussa de una lingua de Mesania, est a nai de sa lingua de sa leada de mesu de Sardinna, de cussa leada chi est posta in mesu a is fuedhadas campidanesas e de is fuedhadas logudoresas-nuoresas, e chi tenit piessignos de giossu e piessignos de susu, chi s’est isvilupada pighendisì una bisura de una variedadi chi intreverat ghetus de cab’ ’e susu e maneras de cab’ ’e basciu. Mi parit una proposta arrexonada custa. Primu poita c’allacanat s’impreu de sa lingua comuna a s’impitu e a su manigiu amministrativu scéti e lassat a totu cantus totu sa libertadi de fuedhai cumenti ’olint, cumenti agradessint e cumenti funti acostumaus; su de dus, poita ca est una lingua bera e no fatisca, una lingua chi est fuedhada a beru de genti bera in una o in unas cantus bidhas beras, innoi dha podeus atobiai, averiguai e iscumbatai. Mancai ’ndi dh’eus a podi bogai is piessignus (scéti calincunu) chi dha faint parri comenti tropu marcada e tropu istesiada de is atras fuedhadas, cussus piessignus chi dhi donant su sainete de unu logu tropu atremenau e cungiau; ma su fundamentu e su fundoriu, in dogna modu, depit essi e abarrai cussu.
Su profetu de custu iscéberu est cussu de donai una risposta a s’amministarzioni chi abisongiat, cumenti eus nau, de una variedadi de imperai cument’e lingua comuna; e un’amministratzioni chi alleghit in sardu est unu singiali bonu po is Sardus, e prus ancora si s’impitu de custa lingua comuna no benit intesu cumenti chi sa Regioni bollat fai pratzebbas po s’una o po s’atera banda de Sardinna; e in prus si podit cumentzai, partendi propriu de innoi, de sa lingua ’e Mesania, a isperimentai s’aunimentu de sa scritura e de s’impreu comunu puru, fintzas in foras de s’allega aministrativa. Est partendi de innoi chi s’iat a podi provai a manigiai una lingua comuna, cussiderandidha che una móvida; partendi de innoi podeus aciuntai a sa lingua comuna de sa Mesania cosas e trastus chi bengiant de dogna atru logu de Sardinna: bollu nai chi su scrusoxu linguisticu de totu su sardu podit essi aperperau a caustu fundamentu de lingua comuna chene de depi cunsiderai cust’urtima che unu deu chi no si potzat tocai, candu chi invecias andat pentzada scéti che un’isterrida; mancai podeus sighiri a dhi ’ndi ’ogai su ch’issa tenit che tropu marcau cumenti tropu cosa sua, e intreghendidhi piessignus allenus de totu is ghetus de dogna logu de s’Isula. Po isperimentu perou, no po obrigu! Custa ligua de Mesania podit essi unu puntu e unu logu innoi potzat torrai apari totu sa prenda de su mudongiu linguisticu sardu, podit essi cumenti un’aina de iscumbata e de averguamentu, chi fetzat indulli tutu su cirdinu de dogna campanili, ma chene iscancellai su chi dogna campanili tenit de bonu e podit inditai a totu is atrus, ponendusì faci a pari cun totus.

Po concruiri m’iat a praxi a nai chi propriu is chi sunt contra sa lingua sarda, o is chi mancai ’ndi tenint istima ma no creint meda in s’arrennesciu suu, bogant a campu s’arreghescia chi su sardu no tenit unidadi linguistica apitzu ’e su mudongiu suu e chi propriu po custu no potzat callai e no si potzat imponni che una lingua bera e assentada, mentris chi funt propriu is istimadoris prus apentaus a su sardu is chi, meda bortas, arrefudant s’aunimentu de sa lingua, e chi mancu ’ndi bollint intendi de lingua comuna. Est a custu chi bisongiat pentzai bèni, innantis de sighiri: bisongiat pentzai chi is chi imperant su sardu de manera afatanti faint prus arrempellu a scioberai una lingua comuna, mentris chi is chi funti pagu afainaus e pistichingiosus in s’impitu de sa lngua, si ponint a arrexonai partendi dae su mogliu de is linguas mannas chi deddiora ant tentu s’aunimentu insoru. Aici nendi bollu intendi, chi, postu totu custu, s’unificatzioni, s’aunimentu podit essi prusaprestu un’incrina, una punna, ma no depit essi ni un’obbrigu ni un’apretu.

S'unidade de sa limba sarda e s'amparu de sas variedades naturales



Cunferentzia-dibattu. In Sedilo, Sala de Santu Zuseppe, 13 de dognassantu 2004, h. 18,00.

MAURIZIO VIRDIS
Po una limba de mesania

Est propriu pretzisu a tenni una limba unificada?
Deu pentzu chi immoi, in custu momentu anca seus, su problema prus mannu po sa lingua sarda no siat cussu de dha fai bessiri parìvile e de dh’aperperai, no est cussu de auniri totu is isceras de is fuedhadas chi si chistionant, ind una fuedhada scéti. Su problema primargiu chi tenit su sardu, oi chi est oi, est cussu de podi torrai a biviri e de ’nci podi sighiri a aturai in vida, est cussu de si podi spraxiri aintr’ ’e is sardus. Su problema est cussu de un’imparongiu de sa lingua, est cussu de agatai e de cumprovai maneras prus de aggrabu po dh’imparai, ind un’ora che a custa, candu po sa prus parti de is giovanus su sardu est una lingua sempri prus desconnota o pagu connota, mascamenti mein ’s citadis: insandus faci ’e totu custu, s’iat a depi pentzai a maneras e a vetus de annestru diversus e chi s’indullant bort’a borta cuforma a is discentis chi is mastrus s’agatant deinnanti: bollu nai cuforma a su gradu de connoscentzia de su sardu ch’is piciocus podint tenni. E su chi pruscatotu si depi istransiri est un annestru de su sardu cumenti una lingua istrangia, su chi, a parri miu, iat a donai pagu frutu e pagu cabbali, mascamenti intr’e cussus chi su sardu dhu connoscint prus pagu, e in cussas isceras de pessonis chi funti prus rempellas e arrevescias a dh’imparai. Su chi ’nc’iat a bolli duncas, prim’ ’e totu, castiendi cun mirada didatica, iat essi unu strumbulu beru e de fundoriu po imparai su sardu, un’intzidiu ch’iat a depi andai a su propriu paris de s’imparongiu de sa cultura, de sa scritura, e de s’arti sarda etotu.
Adhia de sa chistioni de s’imparongiu, un’atru problema est cussu de favoressi e donai àxiu a una produsssioni de iscritura in sardu, mancai de isperimentu. A nai sa beridadi, in custus urtimus annus o dexina ’e annus seus a faci de una produssioni literaria in limba diaderu manna e bundanti e de cabbali: cosa ’ona custa e de aficu meda e chi si lassat isperai po su benidori, mascamenti po ca custa produssioni amustrat sa balentia chi sa lingua etotu portat intragnada, meda prus ancora si pentzaus chi adhia de sa poesia, chi in Sardinna est sempiri istetia acostumada giai deddiora, s’est afortziendi una iscritura de prosa, chi certu est mancu de costuma, ma chi s’est amustrendi sempri prus a s’artària de su proponimentu chi tenit. Seu pentzendi pruscatotu a s’abbilentzia chi tenit cust’iscritura, e a s’atonomia chi portat faci ’e s’italianu, chi a s’italianu sempri prus pagu su sardu dhi depit pagai datziu. Un’abbilentzia, ’ollu nai, e una boluntadi de scrucullai, in mesu a is arrexinis de sa lingua, in su ch’issa tenit chistiu e allogau, in s’arrichesa cuada, una gana, seu narendi, de circai is fuedhus e is peraulas, sa paraula, de nai e po s’espressai; amustrendi e comprovendi cumenti sa lingua sarda siat prus arrica de cantu no si potzat crei. Postu totu custu, su problema est insandus cussu de s’ispaniamentu de totu custa produssioni de iscritura; e prima ’e totu in sa bia de donai giudu e impellida a s’imprenta editora, balenti e atzuda, chi si ’nd’est atuaendi su carrigu de una faina che a custa. E po segunda cosa si depit donai ispicu a sa sienda imprentadora e editora, iat a tocai a dha isprundiri, a ’ndi donai su bandu (a ’ndi fai sa pubblicidadi s’iat a depi nai italianizandu) po ca potzat alcansai s’iscopu, po ca potzat arribbai a logus e tretus, astesiendusì in cussorgias prus mannas e àmparas in foras de is treminis istrintus de is cufrarias chi, mancai apentadas, funti perou casi cuadas in s’umbra si no asut’ ’e terra. Totu custu iat a donai s’idea de su balori e de cali capassidadi teni sa lingua sarda. Su de ispainai totu custu fintzas in iscola, si liat torra a su chi giai fia nendu deinnanti, a propositu de iscola e de imparu e annestru, e iat a sestai mein sa conca de is piciocus, a su mancu is chi tenint prus dilighesa a dh’intendi, arrexonis prus arrexinadas e cumbintas po un’impreu e unu imparu fungudu de sa lingua
Ateras arrexonis si podint agatai aintru ’e una leada e cund una medida chi siat abberu plurilingue in s’essentzia. Bollu nai unu plurilinguismu chi no siat impitau scéti comenti e un’aìna pratica e de servitziu po is bisongius prus deretus, comenti, po esempiu, podit essi po su fatu ca in custu mundu est pretzisu a connosci linguas istrangias po ’nci arrennesci a isciri su chi acontessit infora de nosu, po s’infromai de su chi capitat adhia de su strintu nostru natzionali, o po si mantenni acaraus cun is strangius (e si giai est istrinta sa leada natzionali, imagineusì sa regionali!); nossi no est scéti cussu, deu pentzu: no est scéti chistioni de si ponni in contatu cun is atrus de atrus cirrus de su mundu cun iscopu praticu (cosa, custa, chi no ’nci tengu nudha ’e nai, ci at a mancai, andat bèni s’ingresu, chi ’nd’est bessendi de dì in dì su latinu nou de òi, isterridu in totu su mundu; e andat bèni puru calisisiat lingua mancai de foras de s’Europa, bistu chi cun s’infora de Europa eus a tenni contus e chistioni in su benidori innoi acùrtziu). Andat bèni totu custu, ma una pesadìa chi siat plurilingue abberu si podit fintzas fai (si no mi seu atrivendu tropu nendi custu) propriu cun is linguas minoris (minoris aici po nai), cussas propriu de domu, de una domu meinnoi su bilinguismu (est a nai s’impitu de sa lingua prus àmpara natzionali accanta de sa lingua minori regionali) innoi su bilinguismu, seu nendi, est cosa acostumada e fitiana, o mancai innoi su bilinguismu est una cosa imberta e virtuali: innoi sa lingua minori, fintzas si no benit impitada, abarrat e s’istentat asuta de su pillu de sa lingua manna. Un’esercitziu de bortadura de s’italianu a su sardu insandus iat podi èssi sa cosa chi podit atziviri abberu e cun profetu su prus mannu, po agatai su sentidu de s’identidadi, unu fatu de cabbali prus de milli atras cosas o imbentus o predicas. Poita ca s’identidadi no est cosa aici sintzilla comenti de pentzai sa difaréntzia cun su propriu sentidu de is pipius (chi narant: nosu, is Sardus, cumenti seus bellus e balentis, nosu chi seus istesiaus de is atrus, diversus de totus). Nossi, no est aici: s’identidadi est, a su contrariu, su d’acurtziai su chi est atesu, est unu perrogu supriu de is atrus; s’identidadi est a fai parìvile pari cun nosu su chi est allenu, ma manigendidhu a ghetu nostru e assentendidhu in su mundu nosrtu etotu; fendi cambiapari inta culturas e universus difarentis. Un esercitziu che a custu de passai de una lingua a s’atra de pentzai in mesu a duas linguas, un’esercitziu che a custu nos’ iat a podi amustrai cummenti cadauna lingua impreat una manera totu sua po tenni giuntus aintr’ ’e pari is sentidus e is significaus, una manera chi est diversa de una lingua a s’atra. E custu dhu podeus cumprendi pruscatotu candu tocat a espressai significaus, imbentus de menti e sentidus astratus, significaus chi si depint isterriri movendi de difarentis iscrocas concretas; est custu contivizu chi s’atuant su cervedhu e su fuedhu, maniggendi bartzigas e impitendi su suspu e s’iscromba, alleghendi a sbiasciu. Est innoi insandus chi podeus tocai cun is manus, e cun sa conca, cumenti sa diversidadi siat posta faci ’e pari cun s’identidadi, chene de ’nc’essi disamistadi intr’ ’e is dus; est deaici chi si ’nd’acataus cumenti una lingua ¬ - cal’est su sardu - chi no est meda acostumada a su fuedhongiu astratu ¬ ma scéti poita dh’anti allacanda in su concretu - e chi po tantu no est de su totu disposta a tratai is fuedhus astratus de un atra lingua, dhus podit acansai, custus fuedhus astratus, in domu sua etotu movendi e isterrendi propriu de su concretu cosa sua.

Bèni totu custu, ma beneus imoi a sa chistioni de cust’atobiu de òi, chi est cussa de s’unificatzioni de sa lingua sarda. Apu giai nau in s’isterrida de cust’arrelata, chi sa chistioni de s’aunimentu de sa lingua no est, in su momentu, a parri miu, su problema primargiu. Ma su chi mi seu dimandendi imoi est si custa chistioni si dha depeus ponni cumenti problema in facci ’e su benidori, e si est aici, po cali iscopu e de cali ghetu. Po meda genti su de s’unificatzioni, su de rendi parìvile totu s’iscera de is fuedhadas sardas, parit su problema prus mannu in s’aficu de una sorti diciosa po su sardu. Totu custu a mei, perou, parit prus chi atru su chi si narat unu feticcio, una màriga sbuida de sentidu, una chistioni no bera, no de sustantzia. A mimi totu custu mi parit su reflessu, sa magini torrada incuadas de atras istorias, de istorias de ateras linguas e culturas, nascias e crescias in tempus diversus, in cussorgias diversas e chi ant sighiu camineras diversas. A mei mi parit, totu custu, de si ’nci ’olli sprigai in s’istoria de is natzionis e natzionalidadis europeas modernas: cuss’istoria chi narat chi dogna natzioni depit tenni una lingua sua, e, pruscatotu, una lingua aunada e bona po su manigiu de totu sa natzioni artziendi asuba de totu su mudongiu chi s’agtat de cussorgia in cussorgia. Ma segurus seus chi nosu puru depeus/boleus torrai a fai sa propria esperiéntzia? Segurus ’ndi seus? mancai torrendi a fai is proprias fadhinas de cussus manigius istoricus? (chi, assora, funti stetius su de ’nd’ai bogau de mesu totu is difarentzias, totu is identidadis minoris e totu is sentidus de arrexinamentu e de apartenidura a su logu suu). Fortzis no seus in sa propria posidura chi si ’nci funti assentadas e afortziadas is linguas natzionalis in su passau de s’istoria. Òi seus de su parri chi su de coberai s’identidadi no depat ismenguai su balori de su chi est difarenti. Depeus partiri de s’idea 1) chi sa difarentzia est arrichesa; 2) chi s’imbastimentu, s’assentu e su vocabolariu de su sardu est sempri su propriu po dogna iscera de fuedhahda sarda; e duncas chi 3) su de isciri o de imparai una variedadi de sardu donat àxiu po cumprendi e po allegai fintzas is atras variedadis, 4) chi su chi ammancat a una variedadi dhu podeus agatai ind un’atra, diaici chi una podit crumpiri s’atra, mascamenti po su chi pertocat a su lessicu; e, 5) po acabbai, depeus pentzai chi aunimentu no bollit nai su de torrai totu a unu propriu pari.

A una unificatzioni, a un’ aunimentu, podeus fintza pentzai cumenti aficu e cument’e punna: ma su manigiu e su caminu po dh’acansai no at a podi essi cumandau e impostu de nisciuna autoridadi, ni podit essi cosa bessia de su taulinu de carchi sabiu, po cantu sabiu siat, ma at a podi/depi bessiri in foras (si dhu ’oleus) de sa faina pratica etotu, de sa scritura, de s’arti e de s’imbentu, e de su si fuedhai totu cantus impari is Sardus. E insandus est po cussu chi tocat chi dognunu imparit a primu sa fuedhada de domu e de bidha sua. S’aunimentu de totu su sardu podit essi pentzau cumenti carchi cosa chi no siat tostada e cìrdina, ma modhi invecias, e chi agguantit su mudongiu e indullat a sa difarentzia. Candu su lessicu, is peraulas, is fuedhus de dogna genia de fuedhada ant essi pratzius intra ’e totu cantus, insandus sa diversidadi, is diffarentzias anti a donai pagu strobbu e mancu irfadu; e custu mescamenti si ’ndi abbrandaus totu su chi iscerat tropu unu ghetu de fuedhai de un’atru, su chi est tropu liau a una bidha, a una cussorgia, a unu logu propriu, mannu o piticu chi siat, e si poneus ingrina a imperai cussas cantus variedadis aperperadas (i sub-standard) chi esistint giai.
Aparrat perou una chistioni, e est cussa de sa lingua de s’aministratzioni, in spetzia de s’aministratzioni centrali regionali. A nai su beru una proposta in custu deretu ci fiat giai stetia, imoi carchi annu fait, fut sa proposta de sa LSU (Limba Sarda Unificada). Cust’urtima at tentu, deu creu, prus d’unu meréssidu: si no est atru, su de ponni su problema, de scucullai imbentus arresurtus arrexonaus pruscatotu de sa banda ortografica, e in dogna modu a tentu su meréssidu de ai istérriu su problema e de ’ndi ai sucau sa dibbata e sa chistioni, e fintzas s’iscumbata intr’ ’e pensamentus isceraus, e totu custu ponendi a banda totu sa pelea e is cuntierras chi si ’ndi sunti pesadas a pitzu. Ma scieus fintzas chi custas peleas e cuntierras ’nci funti istetias puru, cun arresurtus de iscussentidura. Scieus chi sa LSU ’nd at pesau me’ is fatus scontrorius in totu su cab’e basciu de s’Isula, po ca est istetia fraigada asuba de is fundadamentas de is fuedhadas de su cab’ ’e susu e ’nd’ at iscancellau casi totu is piessignu campidanesus; e est nódidu puru chi custus scuntrorius ’nci funt istetius fintzas me’ is cussorgias de su centru e de sa band’ ’e susu de Sardinna. Ma puru atras arrexonis ant portau a arrefudai sa LSU (mancai no siant totu arrexonis atuadas): sa prima est chi sa LSU est una lingua fatisca chi no torrat a pari cun nisciuna fuedhada chi s’alleghit, e po custu est dificili a ’nci cunsentiri; po segundu custa LSU, mancai a fuedhus e a prima mirada, lessit logu a totu is fuedhadas naturalis chi si imperant in Sardinna, mein su fattu issa, sa LSU, allacanat custas fuedhadas in su strintu de domu insoru, e in s’impreu praticu scéti: in fatis sa proposta narat chi sa LSU est sa lingua de s’aministratzioni, de sa radiu, de sa televisionis, de s’imprenta, de sa publicidadi: e insandus ita dhi ’nd’abarrat a is fuedhadas beras e naturalis? Nudh’atru chi s’atremenadu, s’istrintu de domu e de bidha o pagu in prus! Aberendi deaici sa bìa a su folclore de custas fuedhadas e torrendi a curri sa propria caminera frassa de atrus tempus.

Insandus sa proposta chi si podit isterri est cussa de una lingua comuna e unificada chi potzat bàlliri perou scéti po s’amministratzioni centrali regionali e scéti in bessida, est a nai chi s’amministratzioni de sa Regioni sarda imprea custa lingua comuna po torrai arrespusta a chinisisiat dha preguntit po calisisiat cosa; ma, po atra banda, sa Regioni podit arreciri e colliri preguntas, mancai uficialis, in calisisiat scera de fuedhada sarda. Totu custu po ca de una banda, posta sa mancantzia de una lingua sarda comuna, sa Regioni no podit arrefutai nisciuna variedadi de sardu, de s’atera banda po ca non si podit pentzai chi sa Regioni etotu iscriat o alleghit in centu ghetus difarentis a segundu de s’impreau chi s’agatit, borta po borta, a respundi a sa genti, (in logudoresu si s’agatat un impreau logudoresu, in castedhaiu si s’agatat un’impreau castedhaiu), ne si podit pentzai chi si depat andai a circai una ’orta un’impreau chi respundat, aici po nai, in mamojadinu a is mamojadinus, un’atra ’orta a circai un impreau chi scipia su sedhoresu po arrispundi in sedhoresu a is sedhoresus, e un’atra ancora un’atru chi scriat in tempiesu a is tempiesus.
Scéti in custu sentidu e in intru de custus treminis e abisongiu si podit e si depit pentzai e agatai unu sardu comunu, a su mancu po imoi. E cali tipizu de lingua s’iat a depi scucullai e scioberai po cust’iscopu? Depeus torrai a fai is proprias fadhinas de ariseu? Depeus imbentai torra una lingua fatisca de taulinu, chi mancai ’ndi fatzat intrai carchi piessignu in prus de is fuedhadas de Campidanu? S’est giai bistu chi su fatiscu no est agradéssiu e no praxit meda, antzis no praxit propriu po nudha: e insandus si depit andai abbia de una lingua bera e fuedhada deabberu. Sa proposta est cussa de una lingua de Mesania, est a nai de sa lingua de sa leada de mesu de Sardinna, de cussa leada chi est posta in mesu a is fuedhadas campidanesas e de is fuedhadas logudoresas-nuoresas, e chi tenit piessignos de giossu e piessignos de susu, chi s’est isvilupada pighendisì una bisura de una variedadi chi intreverat ghetus de cab’ ’e susu e maneras de cab’ ’e basciu. Mi parit una proposta arrexonada custa. Primu poita c’allacanat s’impreu de sa lingua comuna a s’impitu e a su manigiu amministrativu scéti e lassat a totu cantus totu sa libertadi de fuedhai cumenti ’olint, cumenti agradessint e cumenti funti acostumaus; su de dus, poita ca est una lingua bera e no fatisca, una lingua chi est fuedhada a beru de genti bera in una o in unas cantus bidhas beras, innoi dha podeus atobiai, averiguai e iscumbatai. Mancai ’ndi dh’eus a podi bogai is piessignus (scéti calincunu) chi dha faint parri comenti tropu marcada e tropu istesiada de is atras fuedhadas, cussus piessignus chi dhi donant su sainete de unu logu tropu atremenau e cungiau; ma su fundamentu e su fundoriu, in dogna modu, depit essi e abarrai cussu.
Su profetu de custu iscéberu est cussu de donai una risposta a s’amministarzioni chi abisongiat, cumenti eus nau, de una variedadi de imperai cument’e lingua comuna; e un’amministratzioni chi alleghit in sardu est unu singiali bonu po is Sardus, e prus ancora si s’impitu de custa lingua comuna no benit intesu cumenti chi sa Regioni bollat fai pratzebbas po s’una o po s’atera banda de Sardinna; e in prus si podit cumentzai, partendi propriu de innoi, de sa lingua ’e Mesania, a isperimentai s’aunimentu de sa scritura e de s’impreu comunu puru, fintzas in foras de s’allega aministrativa. Est partendi de innoi chi s’iat a podi provai a manigiai una lingua comuna, cussiderandidha che una móvida; partendi de innoi podeus aciuntai a sa lingua comuna de sa Mesania cosas e trastus chi bengiant de dogna atru logu de Sardinna: bollu nai chi su scrusoxu linguisticu de totu su sardu podit essi aperperau a caustu fundamentu de lingua comuna chene de depi cunsiderai cust’urtima che unu deu chi no si potzat tocai, candu chi invecias andat pentzada scéti che un’isterrida; mancai podeus sighiri a dhi ’ndi ’ogai su ch’issa tenit che tropu marcau cumenti tropu cosa sua, e intreghendidhi piessignus allenus de totu is ghetus de dogna logu de s’Isula. Po isperimentu perou, no po obrigu! Custa ligua de Mesania podit essi unu puntu e unu logu innoi potzat torrai apari totu sa prenda de su mudongiu linguisticu sardu, podit essi cumenti un’aina de iscumbata e de averguamentu, chi fetzat indulli tutu su cirdinu de dogna campanili, ma chene iscancellai su chi dogna campanili tenit de bonu e podit inditai a totu is atrus, ponendusì faci a pari cun totus.

Po concruiri m’iat a praxi a nai chi propriu is chi sunt contra sa lingua sarda, o is chi mancai ’ndi tenint istima ma no creint meda in s’arrennesciu suu, bogant a campu s’arreghescia chi su sardu no tenit unidadi linguistica apitzu ’e su mudongiu suu e chi propriu po custu no potzat callai e no si potzat imponni che una lingua bera e assentada, mentris chi funt propriu is istimadoris prus apentaus a su sardu is chi, meda bortas, arrefudant s’aunimentu de sa lingua, e chi mancu ’ndi bollint intendi de lingua comuna. Est a custu chi bisongiat pentzai bèni, innantis de sighiri: bisongiat pentzai chi is chi imperant su sardu de manera afatanti faint prus arrempellu a scioberai una lingua comuna, mentris chi is chi funti pagu afainaus e pistichingiosus in s’impitu de sa lngua, si ponint a arrexonai partendi dae su mogliu de is linguas mannas chi deddiora ant tentu s’aunimentu insoru. Aici nendi bollu intendi, chi, postu totu custu, s’unificatzioni, s’aunimentu podit essi prusaprestu un’incrina, una punna, ma no depit essi ni un’obbrigu ni un’apretu.

La lingua sarda oggi: bilinguismo, problemi di identità culturale e realtà scolastica


a
Convegno Dalla Lingua materna al plurilinguismo. Organizzato dal Movimento di Cooperazione Educativa del Friuli Venezia Giulia
Gorizia, 7-8 novembre 2003

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La lingua sarda vive oggi una situazione e una dimensione che può apparire per molti versi contraddittoria. Da un lato infatti il numero dei parlanti sardi diminuisce progressivamente, in specie tra le giovani generazioni, e, anche fra chi fa uso del sardo, va aumentando il numero di coloro che questa lingua usano in maniera e misura sempre più marginale, in alternanza, spesso anche in un medesimo atto locutivo, con l’italiano; inoltre si assiste a un massiccio processo di rilessificazione che sostituisce a dosi massicce tanta parte del lessico tradizionale e storicamente depositato con elementi supinamente tratti dall’italiano, sì che anche coloro che magari usano il sardo come codice più frequente nella loro esistenza sociale, lo usano con apporto assai cospicuo di lessico esterno alla lingua. Questo da un lato, dicevo, il lato negativo; dall’altro si assiste positivamente a un fenomeno per il quale il sardo viene usato con maggior competenza, appropriatezza e ricerca linguistica da parte di svariati scrittori e intellettuali; sì che si può dire che oggi, proprio ora che la lingua sarda perde sempre più tanti dei suoi utenti, essa, d’altro canto si raffina nel suo uso e dà forse le prove migliori che mai abbia dato nella scrittura letteraria e non solo; perché il sardo trova impiego anche nella stampa, in riviste specializzate (sempre comunque di carattere letterario umanistico e culturale, meno o quasi per nulla nell’impiego tecnico scientifico), e, pur in misura minore, in determinate trasmissioni televisive delle emittenti locali. Soprattutto, mi preme sottolineare, si è arrivati in questi ultimi decenni alla creazione letteraria in prosa, i cui primi esperimenti moderni (fatte salve alcune eccezioni ottocentesche) sono cominciati circa una ventina d’anni fa, ma si infittiscono oggi con risultati più che pregevoli, tra i quali si annoverano anche dei bei tentativi di traduzione.
È dunque il segno di una contraddizione tutto ciò, e comunque di una divaricazione: quella fra una coscienza, o magari incoscienza, sociale diffusa che vede nella lingua di maggior prestigio, e cioè l’italiano ovviamente, il codice da utilizzare quale mezzo di elevazione sociale (il che però significa assai spesso anche omologazione) da un lato, e dall’altro la rinascita, o direi meglio la prosecuzione, maggiormente sentita e dotata di strumenti culturali più forti, di una coscienza identitaria che nella lingua vede uno, se non proprio ‘lo’ strumento essenziale di manifestazione. Se dunque la vita della più gran parte della società sarda ha sempre più obliterato le proprie radici, v’è però un nucleo tenace che compie l’operazione inversa di mantenimento e di riscoperta di esse. Non è altro che il frutto della storia tutto ciò, a ben vedere; una conseguenza e un effetto in cui si radicalizza e si estremizza un processo cominciato nei lontani secoli XV-XVI, quando la Sardegna entrò nell’orbita politica e statuale iberica catalano-spagnola, e si cominciò a vivere linguisticamente una situazione di diglossia, per cui il sardo andò assumendo un ruolo sempre più marginale e comunque subordinato rispetto alle lingue dominanti: il potere parlava altro, e così sarebbe stato d’allora in poi. Tuttavia fra molti esponenti delle classi superiori locali si rivendicava se non certo l’indipendenza politica, certamente una visibilità di autonomia anche culturale con la quale si potessero accorciare le distanze politiche e di assetto di potere all’interno delle dinamiche dell’impero spagnolo. È nella seconda metà del Cinquecento che così si pose la questione della lingua sarda, sulla base di un uso letterario già preesistente il quale, se anche ci sfugge in buona parte, dovette forse essere, io credo, più consistente di quanto non ci lascino intravedere i resti avanzati di questa tradizione. Una parte almeno dell’intellighenzia sarda richiedeva nel maturo Cinquecento, anche attraverso la lingua e il suo uso, una propria autonoma funzione, coordinata al potere centrale e da questo riconosciuta. Frutto di questa temperie è l’opera dell’Araolla che rivendicava la dignità della lingua sarda e la sua capacità di uscire dal mero impiego pragmatico e quotidiano; e da molti punti di vista egli forgiò uno strumento di creazione e di attività letteraria che avrà larghissima fortuna nel futuro fino alla soglia dei nostri tempi; strumento che era costituito da una base strutturale grammaticale e lessicale sarda ma con forte immissione, nel vocabolario e in molti giri sintattici e stilistici, di materiale e di modalità espressive provenienti dallo spagnolo e soprattutto dall’italiano, oltre che dal latino. Fatto che dimostra sia la diglossia di fondo in cui ormai il sardo e la Sardegna vivevano, sia, parimenti, il plurilinguismo vigente, almeno fra le classi medio alte e, a livello passivo, praticamente in tutte le classi almeno a livello di percezione socioculturale.
Nel secolo XVIII la Sardegna esce dall’orbita ispanica e comincia o ricomincia a gravitare nella sfera italiana: il Regno di Sardegna nel 1720, più di un secolo prima dell’unificazione politica dello stato italiano, è assegnato al sovrano piemontese, ma il Piemonte ormai da tempo si avvicinava politicamente e culturalmente all’Italia. In questo periodo in cui si riorganizzano in Sardegna gli studi universitari, la Sardegna stessa riesce a partecipare del processo di rinnovamento culturale europeo messo in moto dal clima illuminista; e sul piano politico è importante ricordare come alla fine di questo secolo vi sia stato un forte movimento politico, determinato e soprattutto autocosciente che ricercava l’autonomia dello stato sardo contro il governo piemontese, segno di una acquisita maturità del pensiero politico e frutto del nuovo clima culturale che metteva la Sardegna a pieno titolo nel contesto storico europeo: questi fatti sono infatti contemporanei ai grandi rivolgimenti politici europei, sono contemporanei alla Rivoluzione francese, per intenderci.
Per quanto riguarda la lingua e la linguistica, vanno ricordati l’opera e il pensiero di Matteo Madao. La sua opera intitolata Il ripulimento della lingua sarda, pubblicata a Cagliari nel 1782, è opera certamente d’erudizione e basata su presupposti di descrizione grammaticale e di intento retorico, ma certo non è priva di buone intuizioni proprie dell’autore o ricavate dal dibattito culturale e specificamente linguistico, italiano ed europeo (basti pensare alle frequenti citazioni del Muratori soprattutto, nonché del Du Cange e del Cuvarrubia, fra gli altri). Al di là dei fatti e delle proposizioni specifiche minute che, pur in sé assai rilevanti, non v’è il tempo di analizzare specificamente, è l’impostazione e la funzione sottesa a quest’opera che invece ha qualche cosa a che fare col pensiero politico e di rinnovamento culturale del secolo XVIII, potendosi infatti a mio avviso azzardare una qualche analogia fra il pensiero politico che portò alla cosiddetta ‘sarda rivoluzione’, e le riflessioni sulla lingua. Si legga per esempio dall’allocuzione al lettore del Ripulimento del Madao:

«La lingua della Sarda nostra nazione, comecchè venerabile per la sua antichità, pregevole per l’ottimo fondo de’ suoi dialetti, elegante, per le bellezze che aduna delle altre più nobili, eccellente per la sua analogia colla Greca, e colla Latina, e non solo giovevole, ma eziandio necessaria alla privata, e pubblica società de’ nostri compatrioti, e concittadini, giacque in somma dimenticanza in fino al dì d’oggi, dagli stessi abbandonata come incolta, e dagli stranieri negletta come inutile. […] il natio linguaggio, ch’è il più sensibile vincolo del politico corpo de’ nazionali»

La lingua della nostra nazione sarda, benché onorevole per la sua antichità, pregevole per il fondamento de’ suoi dialetti, elegante per le bellezze che ha ricevuto delle altre più nobili lingue, eccellente per la sua analogia con la lingua greca, e con la lingua latina, e non solo utile, ma anche necessaria alla società privata e pubblica dei nostri compatrioti, e concittadini, è rimasta dimenticata fino ad oggi; abbandonata dai sardi come incolta, e dagli stranieri trascurata come inutile. […]


Il Madao dunque afferma come necessario dare una capacità di buona ed elevata scrittura alla lingua sarda, dato che essa, ora dimenticata e disprezzata, ne ha tutto il potenziale, che potrà rivelarsi al meglio di sé dopo che essa sarà appunto ‘ripulita’ e dopo che sarà ricondotta alle sue proprie, e nobili, origini, che, per il Madao, si troverebbero nel greco e nel latino. Ma, a parte ancora tutto ciò, è soprattutto il concetto del sardo quale lingua ‘nazionale’, in senso ancora settecentesco ma che già prelude all’Ottocento a dover interessare. Infatti se è pur vero che in Sardegna, dice ancora il Madao, gli uomini di cultura e di erudizione ben conoscono le lingue di maggiormente provata tradizione letteraria e culturale, e l’italiano principalmente, è pur vero che la lingua universalmente intesa in quella che egli chiama repubblica sarda, è proprio ed appunto il sardo; esso però, per la negligenza e la pigrizia dei ‘nazionali’ cioè dei Sardi, è stato trascurato e ignorato, e si tratta dunque di esaltarlo e di renderlo capace degli scopi e delle funzioni migliori: di modo che i Sardi, i Sardi tutti, possano intendere i ragionamenti e gli argomenti più elevati non in una lingua loro estranea, ma nella loro. Non solo, ma, dice ancora il Madao nel Settecento, due secoli fa, la lingua sarda deve avere commercio con le altre lingue per potersi arricchire e affinare, e soprattutto per potersi immettere nella corrente culturale e di idee degli altri popoli, nazioni e culture (e il paragone è fatto proprio con il commercio, che è un argomento e un concetto ben settecentesco quindi: come la Sardegna ha commercio di beni economici con altre nazioni, così deve averlo anche con le parole e i costrutti di altre lingue); ciò non significa allora che i Sardi devono restare chiusi nella propria lingua e ignorare le altre, ma viceversa devono aprirsi al mondo, conoscere le altre lingue, a cominciare ovviamente dall’italiano, soprattutto da parte dei dotti e colti: prospettiva di internazionalizzazione, se vogliamo dirlo, ma con forte radicamento nella nazionalità sarda. Vengono dunque tracciate delle linee di politica culturale ben marcata: ed è chiaro come l’opera e le idee del Madao vadano, in qualche maniera, insieme con quanto si agitava e si dibatteva nel contesto politico più strettamente inteso, e non solo sardo. Ma per quanto ci riguarda da vicino, è affermata chiaramente, ma potrei anche dire rivendicata, l’esistenza di una ‘nazione sarda’ in senso già moderno: nazione il cui vincolo sociale e civile è da ritrovare essenzialmente proprio nella lingua; ed altrettanto è proposta la necessità e la volontà di immettere la cultura sarda nel consorzio culturale internazionale; una tale petizione della e per la lingua si fonda sul dato delle sue pretese e ritrovate nobili origini: se oggi questa proposizione delle origini nobili della lingua può apparirci ingannevole, e forse anche un poco ideologica, tuttavia, non va dimenticato, essa ben si collegava con l’erudizione italiana ed europea del tempo.
Passato il momento rivoluzionario settecentesco, quietatisi gli animi, iniziato il processo storico e politico dell’unificazione d’Italia, la lingua sarda è percepita come un patrimonio della cultura popolare, importante certo, ma a livello appunto folclorico e demologico, quale deposito di una sapienza popolare cui però si guarda con un certo sussiego e tutt’al più in maniera strumentale quale veicolo per una migliore acquisizione della lingua nazionale che è ormai l’italiano. Né le classi politiche o la borghesia isolana sentono la necessità di porre la questione della lingua quale strumento di rivendicazione o di lotta o di antagonismo. È semmai in alcuni settori delle classi sociali e politiche di opposizione, quelle più venate di sardismo, nel periodo storico che precede e segue la prima guerra mondiale, che la questione della lingua riemerge come strumento di identificazione popolare, dove all’idea e al sentimento di subalternità di classe si lega l’idea di subalternità nazionalitaria e culturale: il riscatto degli umili e dei marginali che aspira a un ruolo di maggior evidenza, riconoscimento e dignità; date le condizioni economiche e sociali non certo floride della Sardegna dell’epoca, la lotta sociale e la lotta per la sardità, si univano, in molto sentimento diffuso e fra molte personalità, in una medesima percezione e in una stessa disposizione d’animo; penso, in quest’ambito storico, soprattutto a figure di poeti quali Peppino Mereu o Antioco Casula la cui opera è ancora letta ed appassiona. Ma anche nella lotta politica, anche in quella più o mena permeata di sardismo, la questione lingua è restata e resta in ombra e in seconda fila, quando addirittura non viene nemmeno contemplata.
Arriviamo così al nostro oggi. Non voglio fare analisi sociologiche perché no ne ho la competenza, tuttavia alcune osservazioni posso farle, pur senza la pretesa di dire niente di nuovo. Da un lato, anche in Sardegna, come in tutte le regioni italiane, si assiste a fenomeni in se stessi pur positivi, quali la diffusa scolarizzazione, la circolazione dell’informazione e dei media di comunicazione di massa, l’adeguamento e l’emancipazione sociale, la partecipazione alla politica e alla vita nazionale; fenomeni che tuttavia portano effetti collaterali meno auspicabili, primo fra tutti quello di una omologazione acritica a determinati modelli di comportamento e di vita, a modelli culturali spesso mal digeriti, ma ciononostante ambiti quali segno e feticcio di una finalmente acquistata dignità e parità sociale; e in questi modelli entra pure ovviamente il modello linguistico. Anzi proprio a questo proposito è da segnalare come inchieste relativamente recenti abbiano mostrato che la Sardegna è una di quelle regioni italiane in cui la lingua locale, il “dialetto” (dico fra virgolette dialetto), è maggiormente rifiutata e meno usata; se essa resiste, resiste praticamente per lo più in condizioni di monolinguismo sardo, che si contrappone a un altrettanto evidente monolinguismo italiano; più difficile e sempre meno diffusa, anche se certo non assente, l’alternanza dei due codici, come invece avviene in altre regioni italiane (il Veneto e la Sicilia soprattutto). La cosa trova ovvia spiegazione nel fatto che per la più gran parte dei parlanti, la lingua sarda è sinonimo o comunque connotato di un passato misero e miserabile che si vuole dimenticare e di cui ci si vuole liberare, è il segno della subordinazione sociale e politica; la lingua di classi più che subalterne e per di più legate a modalità di vita ormai ritenuta arcaica e pertanto non desiderabile, la lingua degli antichi e dei bifolchi, della ristrettezza e della chiusura paesane contro l’apertura, nazionale e internazionale, urbana e civile. Va aggiunto inoltre che la grande distanza esistente fra i codici locale e nazionale, in parte intrinseca ai codici stessi, in parte indotta dalla separatezza e dalla diglossia, non consente quello slittamento di codice e quella gradatio, quel continuum di registri intermedi che sono possibili in altri dialetti o parlate locali.
Resta però quel filo rosso dell’intellettualità e di alcuni settori politici sardi che non hanno mai abdicato alla lingua e alla cultura dell’Isola, alle radici culturali di essa, da mantenere e da riscoprire e da (ri)utilizzare in chiave moderna; e resta naturalmente un nucleo tenace di parlanti, soprattutto nelle campagne e nelle zone interne che almeno per ora assicurano la sopravvivenza della lingua.

Data comunque la situazione odierna di evidente e fattuale declino della lingua sarda ci si può allora domandare se abbia mai senso recuperare, praticare, usare, insegnare e parlare il sardo. È proprio necessario avere una lingua a sé stante, autonoma, altra, propria, tutta propria, perché l'identità culturale possa essere affermata? È proprio con la lingua e attraverso la lingua che si consolida una tale identità? C’è anche chi potrebbe rispondere di no: che in fondo l'identità si può affermare per altre vie, legandosi e fondandosi su altre radici (come la conoscenza della storia, della cultura e dell'etnia, o dell’esser popolo o magari nazione). E se questo è sufficiente, allora può bastare il codice linguistico oggi maggiormente in uso (e cioè l'Italiano), magari appropriandosene, e, trasformandolo in modo creativo: senza più, quindi, complessi di inferiorità per gli eventuali ‘sardismi’ che si andrebbe ad introdurvi, volontariamente, e liberamente: è ciò che fanno diverse personalità che operano o hanno operato nel campo della letteratura (penso a Sergio Atzeni), o anche in attività per così dire più effimere come il teatro popolare (penso al gruppo ‘La Pola’), il fumetto, la canzone. Si potrebbe insomma, diciamo così, "svuotare" l'italiano dall'interno, e piegarlo a una "parola", a una ‘parole’ sarda, volgere l’italiano ad assumere una tintura di sardità: qualcosa di simile insomma a ciò che è stato fatto con le lingue europee nelle Americhe o con l'inglese in Irlanda, a nessuno seconda per orgoglio nazionale, e d’identità. E c'è chi potrebbe perfino pensare che porsi il problema dell'identità, in termini di marcata differenziazione, è un dato ben caratteristico della debolezza, della fragilità, della minorità, proprie dell’età dell’adolescenza, della non ancor raggiunta maturità.
Ma allora, se così, si deve chiudere ogni discorso sulla lingua, sulla limba come da noi si dice, sulla lingua sarda, insomma? Penso proprio di no, penso invece che la saggezza consista nel programmare e recuperare la diversità tramite il confronto e il dialogo: e in maniera che tale diversità non sia solo nostalgia o infantile contrapposizione agli altri. Una alterità che sia quindi un fatto interiorizzato, un fatto che essendo la pasta stessa di cui siamo impastati, ci renda la coscienza delle molteplici lingue e culture che agiscono in noi, in una compresenza di elementi differenziali che può renderci orgogliosi. Ciò significa riappropriarsi di qualcosa che, per noi, è stato e ci ha costituito, o che ha, se non altro, contribuito a farci essere come soggetto storico e attuale. Discorso forse un po' ostico e antipatico, oggigiorno, questo della storia: ma non c’è cultura sarda, non c’è poesia sarda, non c’è ballo o canto o canzone (anche moderna) sarda, non c’è arte figurativa sarda (né di ieri né di oggi) se non c’è (almeno coscienza e memoria di) lingua sarda: se è vero che la lingua è memoria attiva, struttura del ragionamento, cosmo delle emozioni; altrimenti tutto ciò che ci appartiene rischia di esser visto, anche e proprio a casa nostra, da noi stessi voglio dire, con gli occhi dello straniero che guarda l’esotico: e non esagero nel dire ciò, nei centri urbani e nei ceti urbanizzati si pensa alle cose della tradizione o della specificità sarda con le parole della pubblicità di un agenzia turistica. Ed è per questo che il recupero della lingua e di tutto il patrimonio culturale non lo si deve ridurre a museo o ad archeologia, a ‘bene culturale’ da proteggere, né, peggio – ed è il pericolo che più incombe, va ridotto a folclore: che sminuirebbe la lingua a un fatto museale o ad un oggetto di interesse per alcuni addetti ai lavori: filologi, linguisti, demologi. Perché non vale il ragionamento di coloro che dicono che tanto ormai il sardo non lo parla quasi più nessuno e fra poco scomparirà: il sardo continua ad agire anche nelle menti dei sardi che il sardo non lo conoscono né lo parlano, che non l’hanno mai appreso e imparato; il sardo agisce se non altro nelle strutture linguistiche d’ogni livello dell’italiano regionale di Sardegna, che è il codice usato dai più (agisce nella fonetica, nella sintassi e in ampi settori del lessico); e in contatto col sardo sono/siamo tutti quanti, anche coloro che sardofoni non sono, magari da generazioni; da significati e da significanti sardi siamo tutti circondati nella nostra esperienza quotidiana. Bisogna partire dal constatare che il processo di ‘desardizzazione’ culturale ha trovato spunto e continua a trovare alimento nella desardizzazione linguistica, e che l’espropriazione culturale è venuta e viene a rimorchio dell’espropriazione linguistica. Non voglio proporre la troppo facile ed anche abusata equazione per la quale civiltà x è supinamente equivalente a lingua x: ad una data civiltà si può infatti accedere in molti modi, e sono ben consapevole che vi sono tante persone, intellettuali ma non solo, che hanno conoscenza e coscienza e amore per la realtà e la cultura sarda e che il sardo lo conoscono poco o per niente: ma certo lo strumento linguistico è una chiave primaria di accesso a tale conoscenza e consapevolezza.
Se così stanno le cose dunque, allora l’approccio a un codice in più da imparare, il codice linguistico sardo e della sardità, la lingua sarda insomma, può permettere un più agevole accesso a ciò che, magari senza saperlo, già si possiede, può innescare quella feconda diversità, e quel raffronto interiore fra lingue e significati di cui si diceva; e su questo codice si potrà allora innestare quel che ancora non c'è: che sia questo qualcosa il sardo (ri)chiamato a (nuova) vita, o un codice variante dell'italiano ma intriso di sardità, consapevolmente usato e proposto, e in modi tutti propri e originali; o magari - perché no? - entrambe le cose: che sarebbe la ricchezza maggiore; e ciò affinché non si resti condannati al monolinguismo balbuziente, che è, si sa, quello dei barbari, perennemente estranei anche a se stessi, e mal sopportati da tutti.
Tutto ciò significa, a mio avviso, che comunque il quadro di interpretazione della realtà sociolinguistica del sardo e l’utilizzo di esso debbano partire dall’accertamento di una situazione di plurilinguismo, e comunque di bilinguismo, in cui però i rapporti fra le due lingue variano da situazione a situazione e da gruppo a gruppo sociale.
Allora si pongono problemi reali di ordine diverso, in merito agli interventi che possano o debbano aver luogo per il recupero, la salvezza e la rivitalizzazione della lingua, operando a livelli diversi secondo i destinatari e i luoghi dell’intervento. Ma un’azione primaria credo debba oggi essere fatta e rivolta alla più gran parte dei destinatari: quella del convincimento al recupero. Infatti se vi è certo una minoranza molto motivata al discorso di questo recupero, la maggioranza, rispetto ad esso, oscilla fra atteggiamenti che vanno dallo scetticismo, all’apatia e spesso alla contrarietà. Quando si propongono esperimenti didattici di insegnamento del sardo, spesso si sente dire soprattutto dai genitori: “ma insegnategli l’inglese, che quello che gli serve, non perdete tempo col sardo!”.
La motivazione e il convincimento in ogni caso non possono avvenire solamente a scuola, quest’ultima può e deve intervenire a sostegno culturale, analitico e critico dell’azione, e a rafforzare didatticamente un processo che deve però esplicarsi primariamente nella vita sociale e culturale dei cittadini; se limitato alla scuola, in una situazione come quella attuale in Sardegna, tutto ciò diventerebbe, appunto, soltanto ‘roba di scuola’, e si tradurrebbe in definitiva in qualche ora di noia settimanale in più per gli allievi, non compresa e mal tollerata. Gli strumenti devono essere primariamente altri. Ho sempre avuto la convinzione, che sia pure attenuatamente conservo, che l’utilizzo della lingua sarda da parte delle amministrazioni pubbliche, non gioverebbe più di tanto alla causa della salvezza del sardo, tuttavia sarebbe certo, se la cosa fosse attuata con più determinazione, costanza e continuità di quanta non se ne impieghi finora, sarebbe, dico, un segnale di un qualche impatto per la comunità sociale e civile, che potrebbe vedere e percepire il sardo usato non più solo per la pragmaticità più ovvia e quotidiana, ma sanzionato da un crisma giuridico. E il governo regionale o i governi locali dovrebbero, con maggiore progettualità, non limitata al piano finanziario, favorire non soltanto la produzione letteraria, la cui influenza e il cui effetto può agire soltanto alla lunga, ma anche la produzione in sardo, di qualità se possibile, nella stampa più diffusa, nella programmazione televisiva, nello spettacolo a più largo raggio d'azione. Né vedrei male una campagna mediatica, attuata con spirito e duttilità, lontana da ogni moralismo o pedanteria o accademicità, ed affidata a operatori e professionisti della comunicazione, che radichi l’idea della dignità, della necessità del recupero e dell’impiego consapevole della lingua, della chance in più che sarebbe possederla in maniera consona.
Ed anche sul piano scolastico l’azione dovrebbe essere cauta e diversificata a seconda del tipo di discente che ci si trova davanti. Portare l’attenzione e la progettualità didattica soltanto sull’insegnamento linguistico (a prescindere dal metodo didattico che si voglia applicare e con cui si voglia operare, cosa nel cui merito non entro) sarebbe nella più gran parte dei casi operazione votata al fallimento o al risultato scarso e deludente. Come ho già detto per la più gran parte delle giovani generazioni sarde, il sardo è lingua non più parlata e assai spesso neppure compresa, o magari compresa e usata quale registro minimo dello scherzo e dell’insulto, dell’emozione più epidermica ed effimera; per lo più fra i giovani non è minimamente sentita l’esigenza dell’apprendimento della lingua locale, per il semplice fatto che essi la percepiscono soltanto nei termini e nei limiti entro cui la usano o la sentono usata. L’azione didattica deve allora inserire l’insegnamento linguistico entro un quadro più ampio, che faccia considerare la lingua sarda come un elemento, certo importantissimo, di un complesso storico e culturale della Sardegna di dimensioni più vaste, che abbracci la storia, l’antropologia, le tradizioni popolari, la letteratura nel suo significato più ampio, la stessa storia della lingua, e che incardini l’insegnamento più prettamente linguistico nei termini problematici della questione lingua. Anche la scuola deve, pur se in maniera diversa da ciò che si dovrebbe fare in ambito politico e sociale, anche la scuola deve primariamente convincere, radicare la convinzione dell’utilità e della necessità culturale e civile di apprendere la lingua regionale.
Pertanto ancor prima, dell’insegnamento di una competenza linguistica attiva (un prima che non è necessariamente cronologico, ma soprattutto gerarchico e logico), prima ancora dell’insegnamento grammaticale (quali che siano i metodi che si prescelgano), prima ancora di tutto ciò, dico, sarebbe necessario proporre ai discenti letture in sardo, buone letture ovviamente: far comprendere che il sardo si usa anche per l’espressione dell’alto sentire, per testi di natura complessa, per argomenti anche non ovvii; far comprendere che il sardo è capace anche di esprimere il pensiero astratto e non solo la necessità immediata e concreta; che il lessico sardo è più ampio di quanto non si pensi o non si sappia; che il sardo non è condannato, per sua intrinseca natura, a rimanere legato alla materialità dell’esistenza senza poter andare oltre (e gli strumenti lessicografici recenti lo provano ampiamente, e sono pertanto, e fra l’altro, ottimo sussidio per l’apprendimento); è necessario insomma che si spezzi il circolo vizioso secondo il quale così inconsciamente si ragiona: poiché di fatto in sardo si parla soltanto di cose di poco conto, della quotidianità, del familiare, dell’emozione, e non si va più in là di tanto, allora il sardo è incapace di esprimere qualcosa che sopravanzi tale limitazione, perché non ne possiede gli strumenti, soprattutto lessicali, non possiede le parole adeguate per procedere al di là di tali pretesi limiti; e quand’anche si conosca o si ritrovi la parola giusta per un discorso di maggior profondità, questa parola assai spesso, nella mente e nella percezione dei più, assume risonanze che la legano ai registri bassi o informali e la rendono spogliata del suo vero significato: effetto perverso di quella desardizzzazione, linguistica e non solo di cui dicevo; effetto di una diglossia divenuta ideologia.
Troppo spesso si fanno degli esperimenti didattici che, pur con le migliori intenzioni e la miglior volontà da cui i docenti sono animati, anzi che imprimere negli allievi il senso e la consapevolezza delle capacità attuali e virtuali della lingua sarda, generano l’effetto opposto. Assai spesso infatti si assiste al fatto che l’attenzione del docente viene appuntata sul versante del sardo inteso quale deposito della tradizione: si fanno compiere agli alunni ricerche sulla lingua popolare, sulla parlata degli anziani del paese o del quartiere, sulla terminologia dei lavori tipici, artigiani e agropastorali, sulla ricerca di leggende, antichi racconti e proverbi, sul lessico dei giochi infantili di una volta: insomma un’azione limitata al campo antropodemologico. Niente di male in se stesso, può essere un buon punto di partenza: soprattutto se impostato con spirito creativo e dando forte rilievo al legame che unisce lingua e cultura, parola e civiltà, parola e specificità, parola e creazione. Ma purché la prassi didattica non si esaurisca qui, specialmente nei cicli scolastici che seguono la scuola materna ed elementare (e senza poi stare a dire che i pur titubanti esperimenti del genere si fermano, per lo più e salvo rare eccezioni, alla scuola media; il che è indizio del fatto, talvolta esplicito talvolta sottaciuto e irriflesso, che l’insegnamento del sardo viene pensato quale supporto di una prassi didattica, come veicolo per la conoscenza di una realtà che di fatto esiste e di cui bisogna pur prendere atto, ma per la quale spesso non si ha alcun interesse fondato). Se ci si ferma qui, se si limita l’attenzione alla lingua sarda soltanto nei termini e nei limiti suddetti, nei limiti del tradizionale e del popolare, si rischia di radicare ancor più nei discenti l’idea che il sardo è soltanto la lingua della tradizione che essi ormai, per lo più e sempre più, percepiscono come qualcosa di estraneo al loro mondo; si radica in essi la percezione che il sardo è la lingua di un altro tempo, di un’altra generazione, legata a mestieri che praticamente non si fanno più e che non avranno futuro, la lingua della materialità e non quella della virtualità che progetta l’avvenire e che riflette le intenzioni; l’obiettivo didattico dovrebbe essere mirato non soltanto a quel che col sardo oggi effettivamente si fa e si dice, ma anche a ciò che col sardo si può e si potrebbe fare e dire. La questione è che nel curriculum di formazione dell’insegnante manca quasi sempre una formazione specifica relativa alla cultura e ancor più alla lingua sarda; manca in genere una solida conoscenza, e quindi una coscienza, della storia (storia interna ed esterna) della cultura e della lingua, della sua produzione, dei suoi tesori ma anche dei suoi limiti e comunque dei suoi problemi. Si pone pertanto come urgente il problema della preparazione del (futuro) insegnante di sardo, problema che, pur se da relativamente lungo tempo è stato avvertito, soltanto ora comincia ad essere affrontato con maggiore ancorché timida cognizione.