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Convegno Dalla Lingua materna al plurilinguismo. Organizzato dal Movimento di Cooperazione Educativa del Friuli Venezia Giulia
Gorizia, 7-8 novembre 2003
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La lingua sarda vive oggi una situazione e una dimensione che può apparire per molti versi contraddittoria. Da un lato infatti il numero dei parlanti sardi diminuisce progressivamente, in specie tra le giovani generazioni, e, anche fra chi fa uso del sardo, va aumentando il numero di coloro che questa lingua usano in maniera e misura sempre più marginale, in alternanza, spesso anche in un medesimo atto locutivo, con l’italiano; inoltre si assiste a un massiccio processo di rilessificazione che sostituisce a dosi massicce tanta parte del lessico tradizionale e storicamente depositato con elementi supinamente tratti dall’italiano, sì che anche coloro che magari usano il sardo come codice più frequente nella loro esistenza sociale, lo usano con apporto assai cospicuo di lessico esterno alla lingua. Questo da un lato, dicevo, il lato negativo; dall’altro si assiste positivamente a un fenomeno per il quale il sardo viene usato con maggior competenza, appropriatezza e ricerca linguistica da parte di svariati scrittori e intellettuali; sì che si può dire che oggi, proprio ora che la lingua sarda perde sempre più tanti dei suoi utenti, essa, d’altro canto si raffina nel suo uso e dà forse le prove migliori che mai abbia dato nella scrittura letteraria e non solo; perché il sardo trova impiego anche nella stampa, in riviste specializzate (sempre comunque di carattere letterario umanistico e culturale, meno o quasi per nulla nell’impiego tecnico scientifico), e, pur in misura minore, in determinate trasmissioni televisive delle emittenti locali. Soprattutto, mi preme sottolineare, si è arrivati in questi ultimi decenni alla creazione letteraria in prosa, i cui primi esperimenti moderni (fatte salve alcune eccezioni ottocentesche) sono cominciati circa una ventina d’anni fa, ma si infittiscono oggi con risultati più che pregevoli, tra i quali si annoverano anche dei bei tentativi di traduzione.
È dunque il segno di una contraddizione tutto ciò, e comunque di una divaricazione: quella fra una coscienza, o magari incoscienza, sociale diffusa che vede nella lingua di maggior prestigio, e cioè l’italiano ovviamente, il codice da utilizzare quale mezzo di elevazione sociale (il che però significa assai spesso anche omologazione) da un lato, e dall’altro la rinascita, o direi meglio la prosecuzione, maggiormente sentita e dotata di strumenti culturali più forti, di una coscienza identitaria che nella lingua vede uno, se non proprio ‘lo’ strumento essenziale di manifestazione. Se dunque la vita della più gran parte della società sarda ha sempre più obliterato le proprie radici, v’è però un nucleo tenace che compie l’operazione inversa di mantenimento e di riscoperta di esse. Non è altro che il frutto della storia tutto ciò, a ben vedere; una conseguenza e un effetto in cui si radicalizza e si estremizza un processo cominciato nei lontani secoli XV-XVI, quando la Sardegna entrò nell’orbita politica e statuale iberica catalano-spagnola, e si cominciò a vivere linguisticamente una situazione di diglossia, per cui il sardo andò assumendo un ruolo sempre più marginale e comunque subordinato rispetto alle lingue dominanti: il potere parlava altro, e così sarebbe stato d’allora in poi. Tuttavia fra molti esponenti delle classi superiori locali si rivendicava se non certo l’indipendenza politica, certamente una visibilità di autonomia anche culturale con la quale si potessero accorciare le distanze politiche e di assetto di potere all’interno delle dinamiche dell’impero spagnolo. È nella seconda metà del Cinquecento che così si pose la questione della lingua sarda, sulla base di un uso letterario già preesistente il quale, se anche ci sfugge in buona parte, dovette forse essere, io credo, più consistente di quanto non ci lascino intravedere i resti avanzati di questa tradizione. Una parte almeno dell’intellighenzia sarda richiedeva nel maturo Cinquecento, anche attraverso la lingua e il suo uso, una propria autonoma funzione, coordinata al potere centrale e da questo riconosciuta. Frutto di questa temperie è l’opera dell’Araolla che rivendicava la dignità della lingua sarda e la sua capacità di uscire dal mero impiego pragmatico e quotidiano; e da molti punti di vista egli forgiò uno strumento di creazione e di attività letteraria che avrà larghissima fortuna nel futuro fino alla soglia dei nostri tempi; strumento che era costituito da una base strutturale grammaticale e lessicale sarda ma con forte immissione, nel vocabolario e in molti giri sintattici e stilistici, di materiale e di modalità espressive provenienti dallo spagnolo e soprattutto dall’italiano, oltre che dal latino. Fatto che dimostra sia la diglossia di fondo in cui ormai il sardo e la Sardegna vivevano, sia, parimenti, il plurilinguismo vigente, almeno fra le classi medio alte e, a livello passivo, praticamente in tutte le classi almeno a livello di percezione socioculturale.
Nel secolo XVIII la Sardegna esce dall’orbita ispanica e comincia o ricomincia a gravitare nella sfera italiana: il Regno di Sardegna nel 1720, più di un secolo prima dell’unificazione politica dello stato italiano, è assegnato al sovrano piemontese, ma il Piemonte ormai da tempo si avvicinava politicamente e culturalmente all’Italia. In questo periodo in cui si riorganizzano in Sardegna gli studi universitari, la Sardegna stessa riesce a partecipare del processo di rinnovamento culturale europeo messo in moto dal clima illuminista; e sul piano politico è importante ricordare come alla fine di questo secolo vi sia stato un forte movimento politico, determinato e soprattutto autocosciente che ricercava l’autonomia dello stato sardo contro il governo piemontese, segno di una acquisita maturità del pensiero politico e frutto del nuovo clima culturale che metteva la Sardegna a pieno titolo nel contesto storico europeo: questi fatti sono infatti contemporanei ai grandi rivolgimenti politici europei, sono contemporanei alla Rivoluzione francese, per intenderci.
Per quanto riguarda la lingua e la linguistica, vanno ricordati l’opera e il pensiero di Matteo Madao. La sua opera intitolata Il ripulimento della lingua sarda, pubblicata a Cagliari nel 1782, è opera certamente d’erudizione e basata su presupposti di descrizione grammaticale e di intento retorico, ma certo non è priva di buone intuizioni proprie dell’autore o ricavate dal dibattito culturale e specificamente linguistico, italiano ed europeo (basti pensare alle frequenti citazioni del Muratori soprattutto, nonché del Du Cange e del Cuvarrubia, fra gli altri). Al di là dei fatti e delle proposizioni specifiche minute che, pur in sé assai rilevanti, non v’è il tempo di analizzare specificamente, è l’impostazione e la funzione sottesa a quest’opera che invece ha qualche cosa a che fare col pensiero politico e di rinnovamento culturale del secolo XVIII, potendosi infatti a mio avviso azzardare una qualche analogia fra il pensiero politico che portò alla cosiddetta ‘sarda rivoluzione’, e le riflessioni sulla lingua. Si legga per esempio dall’allocuzione al lettore del Ripulimento del Madao:
«La lingua della Sarda nostra nazione, comecchè venerabile per la sua antichità, pregevole per l’ottimo fondo de’ suoi dialetti, elegante, per le bellezze che aduna delle altre più nobili, eccellente per la sua analogia colla Greca, e colla Latina, e non solo giovevole, ma eziandio necessaria alla privata, e pubblica società de’ nostri compatrioti, e concittadini, giacque in somma dimenticanza in fino al dì d’oggi, dagli stessi abbandonata come incolta, e dagli stranieri negletta come inutile. […] il natio linguaggio, ch’è il più sensibile vincolo del politico corpo de’ nazionali»
La lingua della nostra nazione sarda, benché onorevole per la sua antichità, pregevole per il fondamento de’ suoi dialetti, elegante per le bellezze che ha ricevuto delle altre più nobili lingue, eccellente per la sua analogia con la lingua greca, e con la lingua latina, e non solo utile, ma anche necessaria alla società privata e pubblica dei nostri compatrioti, e concittadini, è rimasta dimenticata fino ad oggi; abbandonata dai sardi come incolta, e dagli stranieri trascurata come inutile. […]
Il Madao dunque afferma come necessario dare una capacità di buona ed elevata scrittura alla lingua sarda, dato che essa, ora dimenticata e disprezzata, ne ha tutto il potenziale, che potrà rivelarsi al meglio di sé dopo che essa sarà appunto ‘ripulita’ e dopo che sarà ricondotta alle sue proprie, e nobili, origini, che, per il Madao, si troverebbero nel greco e nel latino. Ma, a parte ancora tutto ciò, è soprattutto il concetto del sardo quale lingua ‘nazionale’, in senso ancora settecentesco ma che già prelude all’Ottocento a dover interessare. Infatti se è pur vero che in Sardegna, dice ancora il Madao, gli uomini di cultura e di erudizione ben conoscono le lingue di maggiormente provata tradizione letteraria e culturale, e l’italiano principalmente, è pur vero che la lingua universalmente intesa in quella che egli chiama repubblica sarda, è proprio ed appunto il sardo; esso però, per la negligenza e la pigrizia dei ‘nazionali’ cioè dei Sardi, è stato trascurato e ignorato, e si tratta dunque di esaltarlo e di renderlo capace degli scopi e delle funzioni migliori: di modo che i Sardi, i Sardi tutti, possano intendere i ragionamenti e gli argomenti più elevati non in una lingua loro estranea, ma nella loro. Non solo, ma, dice ancora il Madao nel Settecento, due secoli fa, la lingua sarda deve avere commercio con le altre lingue per potersi arricchire e affinare, e soprattutto per potersi immettere nella corrente culturale e di idee degli altri popoli, nazioni e culture (e il paragone è fatto proprio con il commercio, che è un argomento e un concetto ben settecentesco quindi: come la Sardegna ha commercio di beni economici con altre nazioni, così deve averlo anche con le parole e i costrutti di altre lingue); ciò non significa allora che i Sardi devono restare chiusi nella propria lingua e ignorare le altre, ma viceversa devono aprirsi al mondo, conoscere le altre lingue, a cominciare ovviamente dall’italiano, soprattutto da parte dei dotti e colti: prospettiva di internazionalizzazione, se vogliamo dirlo, ma con forte radicamento nella nazionalità sarda. Vengono dunque tracciate delle linee di politica culturale ben marcata: ed è chiaro come l’opera e le idee del Madao vadano, in qualche maniera, insieme con quanto si agitava e si dibatteva nel contesto politico più strettamente inteso, e non solo sardo. Ma per quanto ci riguarda da vicino, è affermata chiaramente, ma potrei anche dire rivendicata, l’esistenza di una ‘nazione sarda’ in senso già moderno: nazione il cui vincolo sociale e civile è da ritrovare essenzialmente proprio nella lingua; ed altrettanto è proposta la necessità e la volontà di immettere la cultura sarda nel consorzio culturale internazionale; una tale petizione della e per la lingua si fonda sul dato delle sue pretese e ritrovate nobili origini: se oggi questa proposizione delle origini nobili della lingua può apparirci ingannevole, e forse anche un poco ideologica, tuttavia, non va dimenticato, essa ben si collegava con l’erudizione italiana ed europea del tempo.
Passato il momento rivoluzionario settecentesco, quietatisi gli animi, iniziato il processo storico e politico dell’unificazione d’Italia, la lingua sarda è percepita come un patrimonio della cultura popolare, importante certo, ma a livello appunto folclorico e demologico, quale deposito di una sapienza popolare cui però si guarda con un certo sussiego e tutt’al più in maniera strumentale quale veicolo per una migliore acquisizione della lingua nazionale che è ormai l’italiano. Né le classi politiche o la borghesia isolana sentono la necessità di porre la questione della lingua quale strumento di rivendicazione o di lotta o di antagonismo. È semmai in alcuni settori delle classi sociali e politiche di opposizione, quelle più venate di sardismo, nel periodo storico che precede e segue la prima guerra mondiale, che la questione della lingua riemerge come strumento di identificazione popolare, dove all’idea e al sentimento di subalternità di classe si lega l’idea di subalternità nazionalitaria e culturale: il riscatto degli umili e dei marginali che aspira a un ruolo di maggior evidenza, riconoscimento e dignità; date le condizioni economiche e sociali non certo floride della Sardegna dell’epoca, la lotta sociale e la lotta per la sardità, si univano, in molto sentimento diffuso e fra molte personalità, in una medesima percezione e in una stessa disposizione d’animo; penso, in quest’ambito storico, soprattutto a figure di poeti quali Peppino Mereu o Antioco Casula la cui opera è ancora letta ed appassiona. Ma anche nella lotta politica, anche in quella più o mena permeata di sardismo, la questione lingua è restata e resta in ombra e in seconda fila, quando addirittura non viene nemmeno contemplata.
Arriviamo così al nostro oggi. Non voglio fare analisi sociologiche perché no ne ho la competenza, tuttavia alcune osservazioni posso farle, pur senza la pretesa di dire niente di nuovo. Da un lato, anche in Sardegna, come in tutte le regioni italiane, si assiste a fenomeni in se stessi pur positivi, quali la diffusa scolarizzazione, la circolazione dell’informazione e dei media di comunicazione di massa, l’adeguamento e l’emancipazione sociale, la partecipazione alla politica e alla vita nazionale; fenomeni che tuttavia portano effetti collaterali meno auspicabili, primo fra tutti quello di una omologazione acritica a determinati modelli di comportamento e di vita, a modelli culturali spesso mal digeriti, ma ciononostante ambiti quali segno e feticcio di una finalmente acquistata dignità e parità sociale; e in questi modelli entra pure ovviamente il modello linguistico. Anzi proprio a questo proposito è da segnalare come inchieste relativamente recenti abbiano mostrato che la Sardegna è una di quelle regioni italiane in cui la lingua locale, il “dialetto” (dico fra virgolette dialetto), è maggiormente rifiutata e meno usata; se essa resiste, resiste praticamente per lo più in condizioni di monolinguismo sardo, che si contrappone a un altrettanto evidente monolinguismo italiano; più difficile e sempre meno diffusa, anche se certo non assente, l’alternanza dei due codici, come invece avviene in altre regioni italiane (il Veneto e la Sicilia soprattutto). La cosa trova ovvia spiegazione nel fatto che per la più gran parte dei parlanti, la lingua sarda è sinonimo o comunque connotato di un passato misero e miserabile che si vuole dimenticare e di cui ci si vuole liberare, è il segno della subordinazione sociale e politica; la lingua di classi più che subalterne e per di più legate a modalità di vita ormai ritenuta arcaica e pertanto non desiderabile, la lingua degli antichi e dei bifolchi, della ristrettezza e della chiusura paesane contro l’apertura, nazionale e internazionale, urbana e civile. Va aggiunto inoltre che la grande distanza esistente fra i codici locale e nazionale, in parte intrinseca ai codici stessi, in parte indotta dalla separatezza e dalla diglossia, non consente quello slittamento di codice e quella gradatio, quel continuum di registri intermedi che sono possibili in altri dialetti o parlate locali.
Resta però quel filo rosso dell’intellettualità e di alcuni settori politici sardi che non hanno mai abdicato alla lingua e alla cultura dell’Isola, alle radici culturali di essa, da mantenere e da riscoprire e da (ri)utilizzare in chiave moderna; e resta naturalmente un nucleo tenace di parlanti, soprattutto nelle campagne e nelle zone interne che almeno per ora assicurano la sopravvivenza della lingua.
Data comunque la situazione odierna di evidente e fattuale declino della lingua sarda ci si può allora domandare se abbia mai senso recuperare, praticare, usare, insegnare e parlare il sardo. È proprio necessario avere una lingua a sé stante, autonoma, altra, propria, tutta propria, perché l'identità culturale possa essere affermata? È proprio con la lingua e attraverso la lingua che si consolida una tale identità? C’è anche chi potrebbe rispondere di no: che in fondo l'identità si può affermare per altre vie, legandosi e fondandosi su altre radici (come la conoscenza della storia, della cultura e dell'etnia, o dell’esser popolo o magari nazione). E se questo è sufficiente, allora può bastare il codice linguistico oggi maggiormente in uso (e cioè l'Italiano), magari appropriandosene, e, trasformandolo in modo creativo: senza più, quindi, complessi di inferiorità per gli eventuali ‘sardismi’ che si andrebbe ad introdurvi, volontariamente, e liberamente: è ciò che fanno diverse personalità che operano o hanno operato nel campo della letteratura (penso a Sergio Atzeni), o anche in attività per così dire più effimere come il teatro popolare (penso al gruppo ‘La Pola’), il fumetto, la canzone. Si potrebbe insomma, diciamo così, "svuotare" l'italiano dall'interno, e piegarlo a una "parola", a una ‘parole’ sarda, volgere l’italiano ad assumere una tintura di sardità: qualcosa di simile insomma a ciò che è stato fatto con le lingue europee nelle Americhe o con l'inglese in Irlanda, a nessuno seconda per orgoglio nazionale, e d’identità. E c'è chi potrebbe perfino pensare che porsi il problema dell'identità, in termini di marcata differenziazione, è un dato ben caratteristico della debolezza, della fragilità, della minorità, proprie dell’età dell’adolescenza, della non ancor raggiunta maturità.
Ma allora, se così, si deve chiudere ogni discorso sulla lingua, sulla limba come da noi si dice, sulla lingua sarda, insomma? Penso proprio di no, penso invece che la saggezza consista nel programmare e recuperare la diversità tramite il confronto e il dialogo: e in maniera che tale diversità non sia solo nostalgia o infantile contrapposizione agli altri. Una alterità che sia quindi un fatto interiorizzato, un fatto che essendo la pasta stessa di cui siamo impastati, ci renda la coscienza delle molteplici lingue e culture che agiscono in noi, in una compresenza di elementi differenziali che può renderci orgogliosi. Ciò significa riappropriarsi di qualcosa che, per noi, è stato e ci ha costituito, o che ha, se non altro, contribuito a farci essere come soggetto storico e attuale. Discorso forse un po' ostico e antipatico, oggigiorno, questo della storia: ma non c’è cultura sarda, non c’è poesia sarda, non c’è ballo o canto o canzone (anche moderna) sarda, non c’è arte figurativa sarda (né di ieri né di oggi) se non c’è (almeno coscienza e memoria di) lingua sarda: se è vero che la lingua è memoria attiva, struttura del ragionamento, cosmo delle emozioni; altrimenti tutto ciò che ci appartiene rischia di esser visto, anche e proprio a casa nostra, da noi stessi voglio dire, con gli occhi dello straniero che guarda l’esotico: e non esagero nel dire ciò, nei centri urbani e nei ceti urbanizzati si pensa alle cose della tradizione o della specificità sarda con le parole della pubblicità di un agenzia turistica. Ed è per questo che il recupero della lingua e di tutto il patrimonio culturale non lo si deve ridurre a museo o ad archeologia, a ‘bene culturale’ da proteggere, né, peggio – ed è il pericolo che più incombe, va ridotto a folclore: che sminuirebbe la lingua a un fatto museale o ad un oggetto di interesse per alcuni addetti ai lavori: filologi, linguisti, demologi. Perché non vale il ragionamento di coloro che dicono che tanto ormai il sardo non lo parla quasi più nessuno e fra poco scomparirà: il sardo continua ad agire anche nelle menti dei sardi che il sardo non lo conoscono né lo parlano, che non l’hanno mai appreso e imparato; il sardo agisce se non altro nelle strutture linguistiche d’ogni livello dell’italiano regionale di Sardegna, che è il codice usato dai più (agisce nella fonetica, nella sintassi e in ampi settori del lessico); e in contatto col sardo sono/siamo tutti quanti, anche coloro che sardofoni non sono, magari da generazioni; da significati e da significanti sardi siamo tutti circondati nella nostra esperienza quotidiana. Bisogna partire dal constatare che il processo di ‘desardizzazione’ culturale ha trovato spunto e continua a trovare alimento nella desardizzazione linguistica, e che l’espropriazione culturale è venuta e viene a rimorchio dell’espropriazione linguistica. Non voglio proporre la troppo facile ed anche abusata equazione per la quale civiltà x è supinamente equivalente a lingua x: ad una data civiltà si può infatti accedere in molti modi, e sono ben consapevole che vi sono tante persone, intellettuali ma non solo, che hanno conoscenza e coscienza e amore per la realtà e la cultura sarda e che il sardo lo conoscono poco o per niente: ma certo lo strumento linguistico è una chiave primaria di accesso a tale conoscenza e consapevolezza.
Se così stanno le cose dunque, allora l’approccio a un codice in più da imparare, il codice linguistico sardo e della sardità, la lingua sarda insomma, può permettere un più agevole accesso a ciò che, magari senza saperlo, già si possiede, può innescare quella feconda diversità, e quel raffronto interiore fra lingue e significati di cui si diceva; e su questo codice si potrà allora innestare quel che ancora non c'è: che sia questo qualcosa il sardo (ri)chiamato a (nuova) vita, o un codice variante dell'italiano ma intriso di sardità, consapevolmente usato e proposto, e in modi tutti propri e originali; o magari - perché no? - entrambe le cose: che sarebbe la ricchezza maggiore; e ciò affinché non si resti condannati al monolinguismo balbuziente, che è, si sa, quello dei barbari, perennemente estranei anche a se stessi, e mal sopportati da tutti.
Tutto ciò significa, a mio avviso, che comunque il quadro di interpretazione della realtà sociolinguistica del sardo e l’utilizzo di esso debbano partire dall’accertamento di una situazione di plurilinguismo, e comunque di bilinguismo, in cui però i rapporti fra le due lingue variano da situazione a situazione e da gruppo a gruppo sociale.
Allora si pongono problemi reali di ordine diverso, in merito agli interventi che possano o debbano aver luogo per il recupero, la salvezza e la rivitalizzazione della lingua, operando a livelli diversi secondo i destinatari e i luoghi dell’intervento. Ma un’azione primaria credo debba oggi essere fatta e rivolta alla più gran parte dei destinatari: quella del convincimento al recupero. Infatti se vi è certo una minoranza molto motivata al discorso di questo recupero, la maggioranza, rispetto ad esso, oscilla fra atteggiamenti che vanno dallo scetticismo, all’apatia e spesso alla contrarietà. Quando si propongono esperimenti didattici di insegnamento del sardo, spesso si sente dire soprattutto dai genitori: “ma insegnategli l’inglese, che quello che gli serve, non perdete tempo col sardo!”.
La motivazione e il convincimento in ogni caso non possono avvenire solamente a scuola, quest’ultima può e deve intervenire a sostegno culturale, analitico e critico dell’azione, e a rafforzare didatticamente un processo che deve però esplicarsi primariamente nella vita sociale e culturale dei cittadini; se limitato alla scuola, in una situazione come quella attuale in Sardegna, tutto ciò diventerebbe, appunto, soltanto ‘roba di scuola’, e si tradurrebbe in definitiva in qualche ora di noia settimanale in più per gli allievi, non compresa e mal tollerata. Gli strumenti devono essere primariamente altri. Ho sempre avuto la convinzione, che sia pure attenuatamente conservo, che l’utilizzo della lingua sarda da parte delle amministrazioni pubbliche, non gioverebbe più di tanto alla causa della salvezza del sardo, tuttavia sarebbe certo, se la cosa fosse attuata con più determinazione, costanza e continuità di quanta non se ne impieghi finora, sarebbe, dico, un segnale di un qualche impatto per la comunità sociale e civile, che potrebbe vedere e percepire il sardo usato non più solo per la pragmaticità più ovvia e quotidiana, ma sanzionato da un crisma giuridico. E il governo regionale o i governi locali dovrebbero, con maggiore progettualità, non limitata al piano finanziario, favorire non soltanto la produzione letteraria, la cui influenza e il cui effetto può agire soltanto alla lunga, ma anche la produzione in sardo, di qualità se possibile, nella stampa più diffusa, nella programmazione televisiva, nello spettacolo a più largo raggio d'azione. Né vedrei male una campagna mediatica, attuata con spirito e duttilità, lontana da ogni moralismo o pedanteria o accademicità, ed affidata a operatori e professionisti della comunicazione, che radichi l’idea della dignità, della necessità del recupero e dell’impiego consapevole della lingua, della chance in più che sarebbe possederla in maniera consona.
Ed anche sul piano scolastico l’azione dovrebbe essere cauta e diversificata a seconda del tipo di discente che ci si trova davanti. Portare l’attenzione e la progettualità didattica soltanto sull’insegnamento linguistico (a prescindere dal metodo didattico che si voglia applicare e con cui si voglia operare, cosa nel cui merito non entro) sarebbe nella più gran parte dei casi operazione votata al fallimento o al risultato scarso e deludente. Come ho già detto per la più gran parte delle giovani generazioni sarde, il sardo è lingua non più parlata e assai spesso neppure compresa, o magari compresa e usata quale registro minimo dello scherzo e dell’insulto, dell’emozione più epidermica ed effimera; per lo più fra i giovani non è minimamente sentita l’esigenza dell’apprendimento della lingua locale, per il semplice fatto che essi la percepiscono soltanto nei termini e nei limiti entro cui la usano o la sentono usata. L’azione didattica deve allora inserire l’insegnamento linguistico entro un quadro più ampio, che faccia considerare la lingua sarda come un elemento, certo importantissimo, di un complesso storico e culturale della Sardegna di dimensioni più vaste, che abbracci la storia, l’antropologia, le tradizioni popolari, la letteratura nel suo significato più ampio, la stessa storia della lingua, e che incardini l’insegnamento più prettamente linguistico nei termini problematici della questione lingua. Anche la scuola deve, pur se in maniera diversa da ciò che si dovrebbe fare in ambito politico e sociale, anche la scuola deve primariamente convincere, radicare la convinzione dell’utilità e della necessità culturale e civile di apprendere la lingua regionale.
Pertanto ancor prima, dell’insegnamento di una competenza linguistica attiva (un prima che non è necessariamente cronologico, ma soprattutto gerarchico e logico), prima ancora dell’insegnamento grammaticale (quali che siano i metodi che si prescelgano), prima ancora di tutto ciò, dico, sarebbe necessario proporre ai discenti letture in sardo, buone letture ovviamente: far comprendere che il sardo si usa anche per l’espressione dell’alto sentire, per testi di natura complessa, per argomenti anche non ovvii; far comprendere che il sardo è capace anche di esprimere il pensiero astratto e non solo la necessità immediata e concreta; che il lessico sardo è più ampio di quanto non si pensi o non si sappia; che il sardo non è condannato, per sua intrinseca natura, a rimanere legato alla materialità dell’esistenza senza poter andare oltre (e gli strumenti lessicografici recenti lo provano ampiamente, e sono pertanto, e fra l’altro, ottimo sussidio per l’apprendimento); è necessario insomma che si spezzi il circolo vizioso secondo il quale così inconsciamente si ragiona: poiché di fatto in sardo si parla soltanto di cose di poco conto, della quotidianità, del familiare, dell’emozione, e non si va più in là di tanto, allora il sardo è incapace di esprimere qualcosa che sopravanzi tale limitazione, perché non ne possiede gli strumenti, soprattutto lessicali, non possiede le parole adeguate per procedere al di là di tali pretesi limiti; e quand’anche si conosca o si ritrovi la parola giusta per un discorso di maggior profondità, questa parola assai spesso, nella mente e nella percezione dei più, assume risonanze che la legano ai registri bassi o informali e la rendono spogliata del suo vero significato: effetto perverso di quella desardizzzazione, linguistica e non solo di cui dicevo; effetto di una diglossia divenuta ideologia.
Troppo spesso si fanno degli esperimenti didattici che, pur con le migliori intenzioni e la miglior volontà da cui i docenti sono animati, anzi che imprimere negli allievi il senso e la consapevolezza delle capacità attuali e virtuali della lingua sarda, generano l’effetto opposto. Assai spesso infatti si assiste al fatto che l’attenzione del docente viene appuntata sul versante del sardo inteso quale deposito della tradizione: si fanno compiere agli alunni ricerche sulla lingua popolare, sulla parlata degli anziani del paese o del quartiere, sulla terminologia dei lavori tipici, artigiani e agropastorali, sulla ricerca di leggende, antichi racconti e proverbi, sul lessico dei giochi infantili di una volta: insomma un’azione limitata al campo antropodemologico. Niente di male in se stesso, può essere un buon punto di partenza: soprattutto se impostato con spirito creativo e dando forte rilievo al legame che unisce lingua e cultura, parola e civiltà, parola e specificità, parola e creazione. Ma purché la prassi didattica non si esaurisca qui, specialmente nei cicli scolastici che seguono la scuola materna ed elementare (e senza poi stare a dire che i pur titubanti esperimenti del genere si fermano, per lo più e salvo rare eccezioni, alla scuola media; il che è indizio del fatto, talvolta esplicito talvolta sottaciuto e irriflesso, che l’insegnamento del sardo viene pensato quale supporto di una prassi didattica, come veicolo per la conoscenza di una realtà che di fatto esiste e di cui bisogna pur prendere atto, ma per la quale spesso non si ha alcun interesse fondato). Se ci si ferma qui, se si limita l’attenzione alla lingua sarda soltanto nei termini e nei limiti suddetti, nei limiti del tradizionale e del popolare, si rischia di radicare ancor più nei discenti l’idea che il sardo è soltanto la lingua della tradizione che essi ormai, per lo più e sempre più, percepiscono come qualcosa di estraneo al loro mondo; si radica in essi la percezione che il sardo è la lingua di un altro tempo, di un’altra generazione, legata a mestieri che praticamente non si fanno più e che non avranno futuro, la lingua della materialità e non quella della virtualità che progetta l’avvenire e che riflette le intenzioni; l’obiettivo didattico dovrebbe essere mirato non soltanto a quel che col sardo oggi effettivamente si fa e si dice, ma anche a ciò che col sardo si può e si potrebbe fare e dire. La questione è che nel curriculum di formazione dell’insegnante manca quasi sempre una formazione specifica relativa alla cultura e ancor più alla lingua sarda; manca in genere una solida conoscenza, e quindi una coscienza, della storia (storia interna ed esterna) della cultura e della lingua, della sua produzione, dei suoi tesori ma anche dei suoi limiti e comunque dei suoi problemi. Si pone pertanto come urgente il problema della preparazione del (futuro) insegnante di sardo, problema che, pur se da relativamente lungo tempo è stato avvertito, soltanto ora comincia ad essere affrontato con maggiore ancorché timida cognizione.