
La lingua sarda oggi
Insegnamento obbligatorio o no della lingua sarda nella scuola? Prima ancora di rispondere affermativamente o negativamente a tale domanda credo che si debbano aver chiare le ragioni il perché e il come eventualmente insegnare una tale disciplina, il Sardo insomma. Credo che un'azione pedagogica mirata a tale fine debba innanzitutto render chiaro - e a chi insegna prima di tutto prima ancora che a chi impara - le motivazioni per cui insegnare il Sardo. Non si tratta di fare i soliti discorsi a monte e/o preliminari ma si tratta di fondare le basi di una disciplina o comunque di un insegnamento che si va o si vuole andare a istituire. Insegnamento della lingua sarda perché? insegnamento della lingua sarda per chi? La risposta al perché muta certamente in funzione del per chi/a chi. Intendo dire che diverso sarebbe insegnare il Sardo in un ambiente già prevalentemente sardofono o, al contrario, in un ambiente didattico che sardofono non è: altro è insegnare il Sardo, che so io, in una scuola di Gavoi o di Collinas a ragazzi provenienti da ambito socioculturale pastorale o contadino, e altro è insegnarlo in una scuola di un quartiere borghese di Cagliari o di Sassari a discenti di estrazione culturale certamente diversa. Nel primo caso si tratterebbe, almeno da un punto di vista prettamente linguistico, di rinforzare, ampliare e affinare una conoscenza già posseduta almeno a livello di base, nel secondo caso si tratta invece di insegnare qualcosa ex novo. E allora proprio qui si pone il punto fondamentale, visto che questa seconda situazione è quella che è ormai pressoché generalizzata o va generalizzandosi nei centri urbani, ma che conquista, e anzi ha già conquistato spazi sempre più ampi anche in ambienti che urbani non sono: e ciò proprio in seguito al procedere e al diffondersi della scolarizzazione, che è esclusivamente italofona come si sa. Questo è naturalmente ben ovvio e noto a tutti.
Ma allora quale soluzione e intervento? Che cosa deve significare insegnare il sardo? Un insegnamento di esso quale lingua straniera? Con una didattica grammaticale, con esercizi applicativi, e magari lettura di qualche testo esemplificativo, così come si fa con l'insegnamento dell'Inglese o del Francese o dello Spagnolo? Aggiungere qualche ora settimanale in più al curriculum didattico? Qualche ora ulteriore che non farebbe che far esclamare agli alunni "che noia! Ancora un'ora: anche l'ora di sardo?" Così facendo si otterrebbero, io credo, anche nel migliore dei casi, gli stessi risultati che si ottengono attualmente nell'insegnamento delle lingue straniere, dove anche nei risultati più lusinghieri e più seriamente perseguiti e ottenuti si può giungere a una buona conoscenza basica delle strutture grammaticali e del lessico di una lingua seconda (a meno di non pensare a un insegnamento intensivo a full immertion perfezionato con esperienza sul luogo in cui è parlata la lingua straniera). Ma allora è questo ciò che si desidera relativamente all'insegnamento del Sardo? Pensiamoci: un insegnamento, per così dire, basic dell'Inglese o del Francese può essere utile in prospettiva perché può essere riattivato in un momento successivo, quando il discente o colui che ha già concluso gli studi ne senta la necessità comunque motivata: questi può partire dalle conoscenze acquisite a scuola e su queste incrementare le proprie conoscenze e attivarle nella pratica che sempre più spesso, e soprattutto per l'Inglese, diventa necessaria. Ma si può dire la stessa cosa per il Sardo? Chi potrebbe sentire uno stimolo simile per una riattivazione di simili conoscenze del Sardo? Chi lo vorrebbe, finché la condizione sociolinguistica della lingua sarda rimane quella che è oggi, con prospettive future che, in queste condizioni, non promettono certo orizzonti di ottimismo?
L'eventuale insegnamento del Sardo deve sia tener conto della situazione attuale e reale della lingua sarda e allo stesso tempo guardare in prospettiva: voler parificare subito e immediatamente il Sardo con altre lingue che hanno sia una più lunga tradizione di insegnamento, ma soprattutto un più storicamente lungo assestamento e radicamento in quanto lingue dell'ufficialità, oltre che - e soprattutto - una raffinata e consumata tradizione produttiva e letteraria (e dico letteraria nel senso più ampio del termine, ossia una tradizione di impiego negli ambiti più diversi della vita culturale); voler fare immediatamente questo salto e questa parificazione, dico, sarebbe volersi votare all'insuccesso del velleitarismo e avviarsi verso una delusione prossima e simile per segno all'entusiasmo che ora ci anima.
E allora? È un atteggiamento rinunciatario quello che propongo? Certamente no!
Tener conto della realtà non è mai rinunciare né venir meno alla volontà.
Ora se la volontà che credo tutti condividiamo è quella che consiste nell'innalzare le sorti del Sardo e di riconquistare uno strumento di identità, io credo insopprimibile, quale è a lingua e il suo deposito ideale; se tutto questo è, io credo che bisogni prendere atto della realtà delle cose, per avanzare, sulla base di questa, un progetto; un progetto anche didattico, ma non solo. Recupero - a livello scolastico e didattico - a mio parere quindi non significa e non può significare, oggi e fin da subito, l'immissione dei discenti nell'uso di una lingua, il Sardo appunto, in maniera immediata: soprattutto perché proprio quest'uso va ancora, per lo più, costruito. Allora la scuola in questo può fare molto ma non può fare tutto.
Per andare sul concreto credo che la prima azione da fare sia quella di motivare e insieme costruire quest'uso. La scuola deve recepire le istanze che vengono dall'esterno e insieme convogliarle in un disegno coerentemente pensato: non solo, ma questo disegno deve riportarlo nel sociale perché le istanze iniziali crescano e si rafforzino. Azione di motivazione dunque prima ancora che insegnamento tout court della lingua, insegnamento che altrimenti rischia di diventare astratto ed esornativo, l'ora in più di Sardo appunto. Questo a mio avviso significa innanzitutto presentare il Sardo come elemento di una civiltà intera che si deve restituire e di cui ci si deve riappropriare. Altrimenti e paradossalmente si rischia di ripetere l'operazione inversa, ma di segno uguale, a quella che fu l'introduzione dell'Italiano nel momento postunitario: ossia la sovraimposizione di un codice non compreso e di cui non si comprende l'importanza e l'esigenza, sentito estraneo, e, nel nostro caso, per di più, colto come reimposizione di qualcosa percepita come un passato ormai finito e fuori dal tempo, espressione propria di una marginalità che invece ci si vorrebbe scrollare di dosso. L'operazione didattica del recupero linguistico deve dunque andare di pari passo col recupero di tutto quanto è il patrimonio culturale: storico, letterario, del patrimonio che è proprio della tradizione antropologica e demologica. All'interno di un insegnamento che sia principalmente insegnamento di una cultura, almeno in una fase iniziale anche di lunga durata, può trovare spazio anche l'insegnamento più specificamente linguistico del Sardo. Che in una prima fase, e/o in maniera primaria e prevalente deve essere mirato all'acquisizione e alla comprensione di una testualità, che inneschi l'abitudine a una comprensione e a una lettura di testi in Sardo, di ogni tipo e genere, di ogni età e luogo: letterari, folclorici giuridici, medievali, moderni, contemporanei; si dovrebbe quindi ingenerare primariamente l'abitudine a una lettura in Sardo, magari come primo passo verso una ancor timida promozione a una scrittura sarda personale e soggettiva.
Certo - e così credo di prevenire possibili obiezioni e opposizioni - in tal modo non si attiva un uso vivo quotidiano della lingua ma si fa solo il recupero di una storia (storia testuale e letteraria), magari recente e recentissima, ma non si sollecita l'impiego diretto: un'operazione, si dirà, storicistica e/o filologica. Certamente questo è pur vero, ma ritengo che senza questo recupero primario non si prevengono quelle riserve che ponevo in principio a questo discorso, quelle che diversamente facendo porrebbero l'insegnamento del Sardo come una imposizione - almeno ai più e comunque a molti - di alcunché di estraneo e di straniero, e comunque anche quando si elimini l'impronta di imposizione, resterebbe comunque l'apprendimento e l'acquisizione di una estraneità con tutti i limiti che ciò comporterebbe.
Con ciò non voglio dire che non si debba svolgere insegnamento linguistico in senso stretto e tecnico, lo si può anche fare, ma per via graduale e con la consapevolezza dei limiti che si diceva; e graduale in doppio senso: non solo graduato a seconda dell'età del discente e del livello di istruzione che man mano acquisisce, ma graduato anche nel tempo di applicazione, voglio con quest'ultimo dire che l'insegnamento linguistico in senso stretto si potrà/si dovrà incrementare a seconda dei progressi che via via si faranno nella coscienza del valore di tale insegnamento e acquisizione, e a seconda dell'aumentare di una conoscenza almeno passiva della lingua.
Chi riattiva allora un uso linguistico, o meglio l'uso di una lingua che va perdendosi e rischia sempre più (ed anzi è ben più di un rischio) di spegnersi? È chiaro, a mio avviso almeno, che quest'uso non può rimetterlo in moto la scuola, o comunque non la scuola soltanto, che al massimo può essere non più che un fattore, importante certo ma non da se solo decisivo, in questo processo. Un processo che deve essere sostenuto da una politica e da una politica culturale che non può e non deve essere sostenuta esclusivamente dalla scuola, perché non è soltanto un fatto di apprendimento, ma un fatto che deve penetrare nel comune sentire, anche, e per cominciare, nel sentire quotidiano, nella cultura della quotidianità: deve essere un fatto di acquisizione, di psicologia condivisa, per la qualcosa più che grammatiche o dizionari servono azioni di convincimento; sarebbe a tal fine più utile una campagna mediatica che non un'azione accademica o scientifica; lo dico con una buona dose di provocazione sia chiaro: l'attività e l'azione scientifica sono ben necessarie ovviamente; ma credo che nella fase primaria di appropriazione e di convincimento generale sia più utile una campagna alla Oliviero Toscani affidata a qualche star o anchorman di grande potere comunicativo, che non a un qualunque pur sapiente accademico il cui raggio comunicativo è di per se stesso corto, ma che può protrarsi ed estendersi se supportato nel modo che sto dicendo (da un'azione mediatica appunto).
Bisogna insomma a questo proposito rompere una sorta di circolo vizioso che, anche se non detto e neppure esplicitato a tutti, funziona talvolta nel comune ragionare, un circolo vizioso che si basa su un mal posto sillogismo, che più o meno il seguente: 1) poiché il Sardo è una lingua (il che tacitamente, e neanche poi tanto, implicherebbe che non è un dialetto) e 2) poiché ogni lingua la si può insegnare, facendola assurgere a dignità didattica e poiché essa la si può impiegare a tutti i livelli e in tutti gli ambiti così come tutte quelle che si è soliti chiamare appunto lingue (e non dunque dialetti), allora 3) anche il Sardo lo si può e lo si deve insegnare, anche il Sardo lo si può e lo si deve impiegare a tutti i livelli e in tutti gli ambiti.
Un ragionamento del genere manca di base, oppure poggia su di una base di stampo, per così dire, platonico, o su una tautologia: una lingua è una lingua, e dunque non è un dialetto. Ma chi stabilisce che qualcosa, una parlata un idioma è una lingua? Chi lo ha stabilito e chi lo stabilisce e lo stabilirà per noi? Ma…, si dirà, qualunque testo, manuale trattato di glottologia o di linguistica romanza dicono e recitano, con sicurezza e senza possibilità di fraintendere, che il Sardo è una lingua: certo, ma dal punto di vista di tali trattati e manuali il Sardo è una lingua a livello descrittivo, al livello di classificazione comparativa nei confronti e nei rapporti con altre lingue e parlate: e sicuramente in ragione dei suoi tratti e dei suoi del tutto originali caratteri evolutivi, grammaticali, strutturali e lessicali il Sardo è senza alcun dubbio una lingua: ciò non è certo fittizio, non è certo una falsità, né una forzatura, ci mancherebbe!: non voglio certo sovvertire nulla di quanto è largamente e da lungo tempo ormai acquisito alla conoscenza scientifica.
Ma è lingua, il Sardo, appunto a un livello descrittivo, classificatorio e comparativo e non lo è, o per lo meno ci sono dei problemi ad ammetterlo, al livello dell'uso, e del riconoscimento: e non parlo del riconoscimento ufficiale e giuridico, che è l'ultima fase da raggiungere e da guadagnare e tutto sommato l'ultima cosa che interessa riguardo ai nostri problemi e alle nostre aspirazioni; non lo è, una lingua il Sardo, o lo è assai problematicamente, al livello delle capacità di impiego, e di impiego, dico, effettivamente realizzato: e dunque non solo virtuale.
Si è detto - lo riferiscono Chambers e Trudgill nel loro lavoro intitolato La dialettologia - che una lingua è un dialetto più un esercito più una marina. Si tratta ovviamente di una battuta, di una boutade, e come boutade viene consapevolmente riferita dai due autori: d'altra parte sappiamo bene che se presa alla lettera, questa battuta non è affatto vera: infatti, lo sappiamo, gli Stati Uniti un esercito e una marina ce l'hanno, e come! e cosi pure magari ce l'hanno l'Argentina e il Brasile, ma le rispettive lingue parlate da queste nazioni sono l'Inglese, lo Spagnolo e il Portoghese o meglio varianti americane di queste lingue europee; e d'altra parte, viceversa, per stare al caso di riconoscimenti più vicini a noi nel tempo, lo Stato Spagnolo ha riconosciuto come lingue il Catalano e il Basco, senza bisogno che né la Catalogna né il Paese Basco abbiano né una marina né un esercito; tutto vero dunque, si tratta di una boutade; e tuttavia le boutades, e anche questa, hanno un loro senso, e il senso della battuta in questione, al di là del significato letterale, è che una parlata quale si sia si può considerare lingua quando dietro di essa vi è una forza e una convinzione convinta che la imponga come lingua, anche se tale forza non deve necessariamente poggiare su una marina e su un esercito (e quindi neanche su una indipendenza politica), ma può poggiare sulla cultura, e sul convincimento politico messo in moto dalla cultura.
Ancora Chambers e Trudgill riferiscono, sempre nella medesima pubblicazione, un fatto e un dato questa volta, un dato storico: si tratta del rapporto linguistico intercorrente fra il Danese e lo Svedese meridionale, che sono parlate affini: orbene finché la Svezia meridionale dipendeva politicamente dalla Danimarca, lo Svedese meridionale era considerato un dialetto del Danese, mentre è diventato una varietà dello Svedese tout court dal momento in cui la Svezia si è svincolata politicamente dalla Danimarca.
Cosa voglio dire con questo? Voglio dire che al di là dei fatti puramente glottologici e di classificazione linguistica (rispetto ai quali lo Svedese del sud può continuare a dirsi un dialetto o comunque una varietà del Danese tanto è vero che vi è reciproca e abbastanza facile intercomprensibilità fra le due parlate), al di là di ciò, voglio dire, lo statuto di lingua lo assegna non tanto la linguistica, quanto la politica e la politica culturale, mentre nessuna parlata può aspirare al rango di lingua (nel senso con cui generalmente e comunemente intendiamo la parola lingua) per qualità intrinseca e intrinseca natura. Certamente nel nostro caso, del Sardo, la distanza strutturale e le peculiarità linguistiche e storico linguistiche possono a buon diritto costituire un argomento in più di rivendicazione, ma appunto un argomento in più, non la ragione fondante.
Detto questo vorrei sgombrare il campo da ogni possibile fraintendimento che io possa aver ingenerato con queste mie ultime argomentazioni: e vorrei dire subito che non intendo negare lo statuto di lingua al Sardo e tanto meno lo voglio negare per il suo futuro, e per la sua virtualità, né, ancor meno, intendo contraddire le nostre aspirazioni: semmai vorrei anzi accoglierle e rafforzarle: ma questo statuto di lingua, per il Sardo, è - appunto lo dicevo - problematico: esso va dunque costruito e conquistato, non lo si possiede di già; questo statuto non è un fatto platonico o metafisico insito in una 'lingua' (e dico lingua fra virgolette) in maniera predeterminata e aprioristica o per qualche misteriosa ragione che ci sfugge in definitiva, ma che sarebbe evidente e lampante (!?). Il Sardo è, o meglio sarà una lingua, per il tanto che sapremo non tanto imporla, ma, prima di tutto, costruirla come tale: e da noi stessi e per noi stessi in primo luogo.
E con questo ritorniamo al punto iniziale che abbiamo lasciato prima: il Sardo come tale e pienamente ancora non c'è, esso va inventato o reinventato, va prodotto e riattivato attraverso un processo che io credo non possa essere di breve durata (il che, sia chiaro, non deve costituire alibi per inerzie di nessun tipo); il Sardo è o sarà una lingua in quanto e per quanto venga supportato da una volontà, da una volontà in senso forte, quella volontà, quel volere che è potere: il Sardo sarà una lingua se i Sardi, come collettività autocosciente e politicamente determinata, lo vorranno, altrimenti sarà nostalgia e rimpianto o peggio ancora velleitarismo: provinciale e infantile.
In cosa si deve tradurre questo nella pratica? Non solo nel dotarsi di uno strumento legale (che è pure assai importante) perché una lingua non si impone per legge e tanto meno, per legge, la si costruisce o restituisce. La pratica deve, io credo, costituirsi nel praticare e nell'incentivare la sperimentazione, sperimentazione produttiva e **sperimentazione creativa: ed è qui, a questo punto, che la scuola può entrare e rientrare in campo. Innanzi tutto a livello ricettivo, ossia nel proporre lettura e fruizione di testi (di ogni tipo e tempo, ripeto), commentati e magari messi a confronto con le conoscenze linguistiche già possedute dai discenti, con le strutture, per esempio, dell'Italiano regionale nostrano che sono quelle più comunemente usate e che hanno appunto il Sardo come sostrato. L'acquisita consapevolezza dell'esistenza di un patrimonio sedimentato nel tempo, nel lungo tempo, di valore storico giuridico letterario religioso in lingua sarda può già contribuire a mutare in positivo l'atteggiamento verso la limba; soprattutto se tutto ciò viene accompagnato da parallelo studio e acquisizione della storia, della storia giuridica delle tradizioni e della letteratura della Sardegna, e il dato linguistico o il suo codice non appare più una imposizione di qualcosa di alieno e immotivato come potrebbe apparire soprattutto in quegli ambienti che già di per se si mostrano poco inclini ad accogliere il codice linguistico sardo e ad adottarne ed ampliarne l'impiego. E sarà proprio la ricezione del passato storico che può contribuire al crearsi di una mentalità e di una opinione secondo cui molto si è perso e si va perdendo del nostro passato, e potrà quindi creare una disposizione favorevole al ripristinoe alla riconquista.
Questo sul lato della ricezione; un po' più difficile è il lato e l'aspetto della produzione in Sardo specie laddove non ve ne sia la ben che minima abitudine, laddove non vi sia la ben che minima base di conoscenza. Negli ambienti, sotto questo punto di vista, più facili - quelli, voglio dire, dove il Sardo già si parla o comunque è ben largamente compreso e non c'è bisogno di grande azione di convincimento - un primo e semplice modo di stimolare la produttività in lingua, potrebbe essere quello di favorire e sollecitare la conversazione in Sardo, anche per ambiti che non siano solo quelli della quotidianità e della colloquialità familiare, ma che possono essere anche quelli degli ambiti relativi più strettamente alla scolarità e alla disciplina scolastica, si può insomma sia pur timidamente e con molta cautela e soprattutto controllo, immettere l'uso del Sardo come lingua veicolare per le discipline di insegnamento/apprendimento. E da qui si può passare a tentativi di scrittura anche questi controllati.
Un altro problema è quello della frammentazione della lingua sarda in diversi dialetti. Problema evidente e certo: di fronte al quale le posizioni e le reazioni che si manifestano sono sintetizzabili in due categorie di segno opposto fra loro. Da una parte si tende a sottovalutare il problema, e dall'altra al contrario a sopravvalutarlo. E vorrei cominciare proprio da questo caso; che il Sardo sia diviso in dialetti, in varietà areali subregionali, non è, in se stesso, un fatto che debba stupire, nessuna lingua è nata unitaria, ma fin dalla sua origine e dalla sua nascita si mostra sotto il segno del frazionamento in diversità dialettali e locali nate dalla dissoluzione di una precedente unità (che per le lingue neolatine era il Latino), pur mantenendo tutte le varietà dialettali determinati tratti cardinali e strutturali che fanno sì che l'insieme di queste varietà dialettali così accomunate possa essere detto e classificato come una lingua. L'unità linguistica a partire da una base frammentata e variabile, è una conquista che si è avuta solo successivamente e non per via naturale o irriflessa, ma in seguito a un processo culturale certo connesso anche con azioni di politica culturale e linguistica, ma non solo; l'unità può essere poi data anche dal prestigio (di diversa natura, politica o culturale o entrambe) di una varietà sull'altra, senza che vi sia stato un progetto o una pianificazione mirante a questo obbiettivo. Tutte le grandi lingue europee moderne hanno attraversato quest'iter e nessuna vi si è sottratta; altre lingue, quelle rimaste minori, questo iter non lo hanno avuto e sono rimaste allo stato di frammentazione dialettale senza nessuna convergenza verso l'unificazione o verso una varietà unificante scelta fra quelle esistenti. Così è ed è stato anche per il Sardo pur se non sono mancati tentativi tesi a tal fine almeno due volte nella storia della nostra lingua: una prima volta nel '500 sotto il segno dell'Araolla, e poi dal Madao; e una seconda volta nell'800 sotto il segno dello Spano, tentativi per altro rimasti di marca puramente intellettuale e non sorretti da un'azione politica né da una riflessione diffusamente meditata, tentativi più che altro individuali, pur se coglievano umori ed esigenze reali, eredità storica e dibattiti nazionali.
Al Sardo resta insomma ancora da fare il cammino e il processo già compiuto da altre lingue verso l'unità. Quale cammino e in che modo disegnarlo? Imporre immediatamente sulle altre una delle varianti dialettali oggi presenti? Ed eventualmente quale e su quale base? Innanzitutto va tenuto presente un problema di non piccola entità, all'interno della nostra regione (già minoranza linguistica entro la comunità nazionale) sono presenti compatti nuclei che formano a loro volta una minoranza nella minoranza; e non intendo solo i Carlofortini o gli Algheresi, ma soprattutto i Sassaresi e i Galluresi il cui codice linguistico è altro e diverso rispetto a quello sardo e che si congiunge invece con quello italiano, e soprattutto per quanto riguarda il Gallurese, è connesso con la Corsica e quindi da pensare in una prospettiva più ampia: tutti questi nuclei formano, messi insieme il 18% circa della popolazione dell'intera Sardegna, non poco dunque e non si può imporre dunque un codice esogeno. Ma a parte questo problema di cui non mi voglio occupare, torno a porre e a pormi la domanda: si può pensare di imporre una varietà sulle altre? La mia risposta, se soprattutto si vuole pensare all'immediato, è no: si è costituita - mi chiedo - una varietà che abbia maggiore prestigio sulle altre, di qualunque tipo sia questo prestigio (politico, letterario, culturale)? Mi pare proprio di no, e dunque qualunque imposizione di qualunque varietà sarebbe arbitraria e non giustificata, sarebbe appunto percepita come tale, come una imposizione. D'altra parte il pericolo che io credo si debba più che altro evitare è quello di voler uniformare le condizioni del Sardo a quelle delle altre lingue restando, noi questa volta, succubi di un pregiudizio e di un feticcio, che è quello della ufficialità, e di fare più o meno lo stesso circolo vizioso falsamente sillogistico di cui dicevo prima, e che sarebbe all'incirca di questo tenore: poiché quelle entità che chiamiamo lingue, con la maiuscola magari, hanno raggiungono e possiedono una unità e magari uno standard, perché solo l'esistenza e il possesso di uno standard garantisce la possibilità di un codice ufficiale, allora anche il Sardo, se vuole essere una lingua con la maiuscola deve avere uno standard unitario, altrimenti non possiamo parlare di lingua sarda; ma ciò significherebbe invertire la causa con l'effetto, fare dell'ufficialità appunto un feticcio e quindi anche dell'unità; ma vogliamo forse credere che la lingua sarda si salverà perché i Consigli comunali e provinciali e il Consiglio regionale discuteranno in Sardo, e in Sardo, o anche in Sardo, saranno redatte le loro delibere o magari i testi legislativi? Non ho ovviamente proprio nulla contro l'uso del Sardo in sede legislativa e amministrativa, anzi credo che in ogni modo ciò può contribuire a dare visibilità alla lingua e al suo problema, e contribuisce a creare quell'opinione e quella mentalità di accettazione di cui dicevo: ma non penso che quest'uso ci faccia progredire di un solo e sostanziale passo. Non è l'ufficialità che crea la lingua, ma è la lingua, una volta che realmente, dico realmente, sia posta in esistenza, ad esigere e a premere verso l'ufficialità, che, lo dicevo in principio, è l'ultima tappa da raggiungere.
E dunque, per tornare al problema della frammentazione dialettale? Credo che si possano trovare soluzioni intermedie, come quella di individuare due o tre varietà cardine e intorno a quelle aggregare le varietà locali e municipali, varietà che potrebbero essere ovviamente il Logudorese e il Campidanese, magari aggiungendovi il Logudorese settentrionale. Da una parte, io credo non si deve temere o demonizzare la diversità, ma semmai abituare e abituarsi duttilmente alla varietà attraverso l'abitudine all'intercomunicazione e allo scambio linguistico, ed anche la prospettiva di una unitarietà finale, magari attraverso la tappa intermedia di sub-unità come dicevo, deve contemplare la possibilità di accettare nel suo interno varianti (parole forme ecc. ) provenienti da diverse parti; dall'altra parte anche una volta che si pensi di poter raggiungere il predominio di una varietà su altre o su tutte le altre, non è certo auspicabile la scomparsa di queste varietà locali, sub-regionali o municipali; non si deve cioè ripetere cioè l'errore commesso da altre lingue e dall'Italiano fra queste, per cui la furia unitaria finisce per mangiare le varietà locali che non sono un ostacolo, ma un deposito di ricchezza linguistica e antropologica. Unità come tendenza e in prospettiva quindi, non come dato primario. Ed è questo che in prospettiva didattica andrebbe insegnato, e non solo come dato nozionale, ma anche come pratica, abituando i discenti a leggere e ad ascoltare
Prima di porsi il problema dell'unità linguistica credo che sia prioritario cavare dalla lingua sarda ciò che può, renderla capace di superare lo stato di codice esclusivamente familiare.
L'altro corno del problema, quello relativo sempre alla frammentazione dialettale, è costituito, dicevo, dalla sottovalutazione del problema; credere che la divisione in parlate diverse non costituisca problema e che vi sia immediata intercomprensibilità fra regioni linguistiche della Sardegna è ugualmente errato, certo la buona volontà e la buona istruzione possono fare molto, così come l'abitudine a frequentare dialetti diversi; ma tuttavia va sempre tenuto presente che le diverse varietà sono ormai storicizzate e funzionano nei rispettivi ambiti, e non possono essere considerate alla stregua delle varietà regionali dell'Italiano. Una cosa è la varietà italiano regionale piemontese o calabrese, un'altra cosa sono il Piemontese e il Calabrese, fra le varietà regionali vi è intercomprensibilità fra i dialetti storici. il Piemontese e il Calabrese, per restare all'esempio, no; e allo stesso modo, anche se in misura certo assai minore, stanno le cose per quanto riguarda le due o tre varietà fondamentali della lingua sarda (e sempre prescindendo da quelle parlate di minoranza di cui prima si diceva): le varietà regionali dell'Italiano esistono in quanto vi è una lingua italiana unitaria che le ha create, e vi può essere un continuum di variabilità che parte dal dialetto e arriva all'Italiano passando per le varianti regionali della lingua nazionale senza soluzione di continuità; i dialetti storici sono il prodotto di un tempo e di una situazione storico linguistica che precede o che comunque prescinde dall'unità linguistica. E così lo stesso si può dire per le varietà sarde principali.
Una soluzione, che non può che essere provvisoria e relativa allo stato delle cose, sta dunque nel mezzo, a mio parere: guardare in prospettiva, ma solo in prospettiva, all'acquisizione di una lingua unitaria, e favorire quanto più è possibile l'interscambio fra parlate diverse del Sardo, incoraggiando la permeabilità di una parlata rispetto all'altra in modo che ciascuna dalle altre importi e prenda a prestito il necessario e anche il superfluo; favorire insomma la mutua conoscenza fra Sardi.
Nessuna accademia o commissione per la lingua, nessun gruppo intellettuale, e nessun intellettuale singolo potrà creare o imporre una unità, che potrà/dovrà invece venire dal libero gioco e dalle libere prove che in limba si faranno, avendo presente la reciproca apertura e disponibilità fra Sardi.
MAURIZIO VIRDIS
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