giovedì 16 dicembre 2010

PREFAZIONE a «Su birde. Sas erbas» di Antonio Mura



PREFAZIONE

Link all’articolo in Sardegna Digital Library http://www.sardegnacultura.it/documenti/7_26_20060401172236.pdf

L’opera poetica di Antonio Mura apparve a Nuoro nel 1971 per le Edizioni Barbaricine col titolo Lingua e dialetto e il sottotitolo Poesie bilingui, con penna, duplicemente sua propria, sarda e italiana, preceduta dal saggio introduttivo di Raffaello Marchi Dialetto e cultura. La raccolta era il risultato di una selezione (sulla quale il Marchi non fu esente dall’esercitare una qualche influenza) rispetto alla complessiva produzione poetica dell’Autore; e lo stesso titolo che la denominava fu mutato rispetto a quello testimoniatoci dalla bozza dattiloscritta tuttora conservata: l’intenzione originaria di Antonio Mura era infatti quella di dare alla raccolta il nome con cui oggi viene qui intitolata, e cioè Su birde. Sas erbas. Ciò che viene dunque oggi riproposto non è la semplice riedizione del testo del 1971, in quanto vengono qui accolte, nella seconda sezione, anche le composizioni espunte dalla scelta operata in quell’anno e fino a questo momento rimaste inedite, e viene ripristinato il titolo primitivamente scelto dall’Autore, Su birde. Sas erbas appunto, cui però abbiamo voluto aggiungere, a mo’ di sottotitolo, conservandone memoria e senso, l’intitolazione originaria Lingua e dialetto. Se si escludono lDipartimento di Filologie e Letterature moderne e segnalazioni sulla stampa isolana che ne annunciavano la comparsa, e una significativa recensione su Il Ponte nel 1972 a firma di Gino Tellini, la raccolta di Antonio Mura è sempre stata, fino ad oggi, sempre poco conosciuta, anche nel circuito letterario sardo, con l’eccezione di pochi ammiratori. E invece quest’opera poetica segna un momento altamente significativo nella “letteratura sarda”. Essa innanzitutto continua quella ricerca di innovazione linguistica e di invenzione tematica che già era stata impostata nella seconda fase dell’attività e della produzione poetica del padre di Antonio, Pietro Mura, nella totalità della cui opera possiamo vedere registrato il passaggio di una linea poetica che, a partire da cadenze tradizionali, giunge a una “sperimentazione che rimette la poesia sarda al passo con la “modernità”. Questo sforzo è dunque, e non solo idealmente, proseguito nell’opera di Antonio che ne raccoglie l’eredità. E ciò tanto da un punto di vista formale quanto da un punto di vista della “sostanza” poetica e morale. Il rapporto padre-figlio rimane primario e indubitabile, sereno, ci pare, e fecondo per la genesi della nuova personalità: una prosecuzione originale e un approfondimento rapportato al senso e al tempo che sono stati i suoi propri. La luce del laboratorio artigiano di quell’operaiu ’e luche soliàna – questo fu Pietro che così si autodenominava – resta, riflessa nella memoria d’infanzia di Antonio, un motivo immaginario: spia contenutistica non da poco, traccia memoriale di sostanza biografica tanto quanto poetica; né va taciuto che la dedica dell’edizione del 1971 suona “Alla memoria di mio padre”. La tastiera tematica di Antonio Mura è varia e multiforme, ma coerente ad una unità di impianto e di ispirazione poetici. E vi si può scorgere una “evoluzione” (almeno per quanto è dato nella e dalla disposizione editoriale) che lo porta dall’impegno civile più dichiarato ed esplicito, ad una introspezione di carattere esistenziale e soggettiva, pur sempre proiettata sullo schermo di un’oggettività antropologica e naturale. I differenti temi sono infatti sempre interrelati e intrecciati, e si deve semmai parlare, per ciascuna composizione, di prevalenza tematica dell’uno o dell’altro, o di una diversa modalità che imposta il dettato di ogni singolo testo che li comprende, sempre, tutti. L’impegno civile non si fa mai ideologia dispiegata o proclama, ma parte dalla concretezza di un’occasione, di una vena e di una modalità narrative, fino a farsi simbologia morale, concettualmente poetica. E anche quando è dall’io che prendono le mosse la composizione e l’istanza poetica, quest’io si proietta e si riflette su di uno schermo esperienziale e problematico dalle valenze proprie, atte a superarlo e a trascenderlo. Anche se talvolta non mancano casi di esemplarità narrativa “pura”; e allora il percorso si fa, ellitticamente, inverso: da una situazione oggettiva esso ripiega sull’io, tanto da ritrovare, implicite e non dette, le coordinate intime esperienziali. Si veda, per esempio, Assor massayo’ lli’ lukìan sos okros, o Ma kando kin okru lukende.

Una tale oggettività narrativa trova il suo acme quando il racconto si fa mito.

Esemplari sono, a questo proposito, le prime due composizioni (e la prima soprattutto, Kusta, inoke, es’ sa terra), che prospettano una visione straniata e paradossale della Barbagia. Di una terra impietrita, quasi preumana, in attesa di essere nsciolta e chiamata alla vita dall’amore e da Dio, dall’amore divino; risolta nella fissità di gesti, interiori, schematici e ripetitivi che la sottraggono al divenire, mentre la morte ne è la cifra incombente che la significa, stampata nel segno cainita della vendetta. A questa segue, in continuità semantico-testuale, introdotta com’è da quell’eppuru, un’altra composizione, Unu populu es’ kupinde sa zustissia, che sembra contrastarla: essa propone infatti i segni della speranza e della rinascita morale, segni che sono depositati nelle parole dei profeti, minori parrebbe, di tale terra medesima, le cui parole si sono formalizzate in dizzos (significativamente corretto su nonzos rispetto alla bozza primitiva), in “proverbi” – come da traduzione dell’Autore – che, fonte sapienziale, si fanno genesi di vita.

L’eccezione profetica è dunque tale, eccezione appunto, ma sufficiente a immettere germi vitali entro la rocciosità impietrita e marmorizzata di una gente altrimenti morta al vivere e al consorzio di civiltà. Anche qui poi, soprattutto nel finale, si ripropone il paradosso che s’era visto nella precedente composizione. E che appare in tutta la sua evidenza e pregnanza quando si guardi alla genesi testuale e al tormento che precede la scrittura della clausola rimbalzante sul titolo: l’alternativa essendo il patire (della bozza preparatoria) o il bramare (della stesura definitiva) la giustizia. Questa oscillazione selettiva del verbo, che regge sintatticamente l’oggetto del dire, “la giustizia”, ridefinisce semanticamente tale oggetto stesso: quale giustizia? come, la giustizia? La versione primitiva, a nostro parere più satura di senso, segna tutto il contrasto e il travaglio concettuale, non solo nella mente dell’Autore, ma nella stessa sardità antropologica, di cui egli, nel e col lavorio testuale, si fa medium. Egli infatti ripropone e incarna, nella genesi testuale medesima, l’ambivalenza – costante alla sardità, non solo linguistica – tribunali e dei carabinieri? patire per la mancanza della giustizia: per una giustizia che, vera, ancora non c’è? patire una giustizia che ancestralmente può tradursi solo in vendetta, quella che sta impietrita nel granitico marmo barbaricino?

In questo quadro così sofferente del farsi, concettuale e formale, del testo, connotato da una ricchezza poetica assai alta, si inseriscono componimenti che contornano il tema già posto dell’alterità spazio-temporale e antropologica dell’Isola, anche sfrangiandolo su motivi diversi. Si pensi, per esempio, all’immagine dell’emigrazione e del lavoro come teatro del contrasto di due diversi modi di percepire il tempo: motivi, il tempo e il lavoro, che costituiscono tanta parte dell’universo poetico del Mura, ma pure, e tanto, della sua umana esistenza biografica. Immagine proposta dal gruppo di poesie che seguono le prime due – Lassàe ki s’òmine kiettu, I’ ssas terrar frittar dessu nord Europa, Mi naban sos amikos, Solu sa luna, inoke, érema sorre. Esse, a partire da un’essenza del quotidiano che risponde a una norma antropologica altra dalla modernità, anche se non per questo banalmente tradizionalista, descrivono un intero orizzonte esistenziale sul quale ricadono echi, almeno tematici, eluardiani: riflessi nell’angoscia della prepotenza e nella inquietante possibilità, sempre in agguato, del risorgere della guerra e della “casta superiore” germanica. In una complessità di tessuto che immette felicissime luci d’intuizione poetica e nozionale, entro una trama spesso declamatoria o topica.

Può essere emblematico di tanto assillo creativo, testuale e concettuale, del Mura il fatto che sia stata cassata la seconda parte, testimoniataci dalla bozza dattiloscritta, della composizione I’ ssas terrar frittar dessu nord Europa, che abbiamo ritenuto dover riportare nuovamente a testo, sia pure segnalando tipograficamente l’intervento di ripristino. Questa sezione assume certamente una cromia di maniera, ai limiti del (neo)folclorismo, ed è certamente questa la ragione per cui è stata espunta dall’Autore nella redazione finale. Tale soppressione squilibra però la complessiva struttura testualee tematica, privandola dell’opposizione fra un qui e un là, che risulterebbe invece essenziale alla completezza morale e concettuale; ma lo scotto che se ne pagherebbe, restaurandola, sarebbe, ed è, quello di una concessione ancora più evidente all’ideologismo precostituito, che tuttavia, anche dopo l’amputazione, non si riesce ugualmente ad evitare. Certo sopprimere l’opposizione ha significato cancellare quella polarità di cui è manifesto il titolo stesso della raccolta, Lingua e dialetto appunto; va però detto che questa polarità, e ne è testimone proprio l’elaborazione testuale, tende, in vero, non a disporsi in termini contrappositivi immediati, ma a mettere in campo due diversità coesistenti e di cui si postula la necessità di interazione. È senz’altro indicativo a questo proposito che la prima composizione, di cui s’è detto sopra, intitolata Barbagia nella prima redazione inedita, prenda poi nell’edizioneil titolo di Kusta, inoke, es’ sa terra, caricandosi di un registro dalla significanza quasi metafisica: metafora universale, la Barbagia, di una condizione dell’anima, prima ancora che traslato di un disagio antropologico; quasi una trasposizione, in altri termini e su uno sfondo morale diverso, della terra desolata eliotiana.

Il rapporto con la Barbagia resta quindi per il Mura non lineare, non risolvibile comunque in amore sereno e piano, ma si dà sempre, ci pare, come un amore sempre sul limite dell’inverarsi, e Antonio Mura ne scandaglia le virtualità ancora inespresse: Tottu, inoke, / nos pode’ ggalu nòkere, e ttottu / gal podet esser fattu, si kreska’ / kkada kosa assa misura ’ess’òmine: perché, inoke, diversa è l’idea che da’ ssustànzia / assu biver dess’òmine (così il poeta in Solu sa luna). È ben ovvio che viene indicata la contrapposizione fra un mondo industrializzato, meccanico e venale, quello della modernità, del Nord, delle terrar frittar dessu nord Europa, al mondo solare del “qui”.

Certo: ma tale “qui” viene anche messo a confronto con l’esistenza alienata, marxianamente, nelle catene di montaggio; con chi teme di no’ akkudire / s’urtima posta ordìa assu balanzu, che teme persino sa mama ’essu reposu! e sa vùghida ’essu tempus, il quale, si sa, è denaro; con chi infine teme proprio la macchina, sa màkkina tonta / ki a traittorìa ti pode’ ddigollare / iskronniàndeti su trattu bellu ’essa karena. Ma l’alterità a tutto questo ancora non è data in atto, la terra altra, l’inoke non è terra di rifugio, neppure memoriale, semmai apertura a un futuro di etimo radicale e differente, il cui parto è travagliato, e che non si incarna in una parola che rifiuti totalmente quel mondo del Nord, ma in quella che semmai, forse, sappia ricondurlo alla misura del “qui”: e allora finzas so’ repartos / inube s’irbòlikat andande a kkolubrinu / su gùtturu ’essas kadenar de montaggiu possono essere amici di quell’uomo che sia amiku dessas kraridades soliànas, della luminosa solarità.

Frattanto, “qui”, si aspetta ancora un (altro) Galilei o un Newton che compiano ciò che del Galilei e del Newton storici non è stato compiuto finora (il cannocchiale fu inventato pro unu

tempus ki vorzis, sì forse…, fit a bbènnere); mentre intanto solo un po’ d’acqua, che per giunta cade a ddistempus, vien talvolta data dalla luna, érema sorre, non scrutata da alcuno strumento ottico astronomico, ma dallo sguardo divinatorio dell’uomo antico e attonito. E d’altronde, pure, anche i moderni, proprio quegli uomini del Nord, credono, galu oye in die, agli spettri, e soprattutto a quello che “s’aggira per l’Europa”. Si tratta della riconquista dell’uomo a se stesso, che sappia vincere i demoni antichi e gli incubi moderni; di dare attuazione all’idea discorde che qui sostanzia il viver dell’uomo; la Sardegna, o più generalmente il “qui”, si presenta come terra vergine in attesa d’essere fecondata: è amore ancora inattinto, che, però intanto si strugge in sé fra tempeste prediluviane; paradosso ossimorico di immota arcaicità e d’innocente giovinezza disposta al divenire; di un magma che può indurirsi, com’è finora, nella pietra ma anche volgersi in vita inedita futura.

Questa idea, e non vogliamo dire certo ideale, di uomo si concretizza nel componimento Kin okros kraros e llìmpios, ritratto dell’uomo sapiu, padrone di sé e di sé solo, mai therakku o mere, che sogna ciò che si avvera e insegue, lucido, i misteri dessu mundu nostru; uomo che, libero, si rallegra della bellezza e della bontà e si contenta della giustizia, patendone l’assenza, insieme con la dismisura che baratta il giusto con la forza prepotente. Figura mitica di una sardità distillata, di quei profeti che proverbi (i dizzos) sparsero.

Una figuralità contraddittoria, ossimorica, dunque germina nella poesia di Mura, con risultati anche diseguali, come s’è visto, talvolta corrivi a una retorica antropo-sociologica propria degli anni che furon, anche, suoi (certo si ruota, cronologicamente, intorno al ’68). Riscattati però al ritmo di un mitologema intimamente poetico, tràdito e soggettivamente rivissuto, sostanziato di linfe eliotiane-eluardiane, che fa reagire le istanze sociali proprie di un’epoca e provenienti – come (quasi) tutto – d’oltremare, con l’idea di una sardità perenne che non sia condannata all’immobilità di un significato marmoreo abbacinante.

La difficoltà, la non linearità del rapporto che lega il poeta alla sua terra e alla (prei)storia di essa giunge ai risultati migliori, toccando vette mitopoietiche altissime, di tutto valore, in Kando sor bendulerir de Venìcia. È, si potrebbe dire, un contromito, o un mito in negativo e/o del negativo, antieroico, che stigmatizza la chiusura pregiudizievole dell’insularità, con originale e inusitata concezione di tale chiusura. Non orgoglio di una diversità in sé conclusa, né lagno querulo per una separatezza che aliena; non rancore o diffidenza precostituiti verso “chi vien dal mare”, né irriflessa apertura allo straniero: che sono le polarità, tante volte pendolarmente coesistenti, dell’immaginario

isolano. Se mito in positivo vi si può trovare, è quello del permanere, proprio fra queste due polarità, date in absentia, di un desiderio inespresso, generato ancora da una possibiltà inattuata: e a causa, ancora una volta, di una mancanza d’amore. Il Fenicio, archetipo d’ogni straniero venuto dal mare, scambia (perché spinto dalla furia dell’onda che inganna) la Sardegna “reale”, “storica” per un’Isula inkantada, capitando così in una sorta di Amazzonia, dove comandano sar feminas pizzinnas e kaddicadoras, tormentate da ferali umori, Amazzoni che cavalcano senza quasi sfiorare la «cima delle erbe ». Ma egli, il Fenicio, non sa di questi umori (e) di queste donne: egli tasta, “titilla” troppo rudemente i fili di quell’erba delicata, e così muore di castrazione: per la vendetta di queste femmine, di questa terra, ingannate e violate. Si aìa’ derettau su timone assa Sardigna: oh sì, certo, tanti bei figli avrebbe egli generato, pronti a correre il mare, e non chiusi nel carcere dell’insularità! E la condanna è duplice: del Fenicio, straniero, annichilito nel suo stesso prepotente orgoglio virile, e della Sardegna- Amazzone, di una Sardegna condannata a restare Amazzonia, incantata, e a non trovare mai più se stessa. Infatti dae tando, da quel giorno, una muralla nos inghiria’, una muraglia ci imprigiona, fatta di mare, serrandoci in un orrido incanto e impedendoci ogni sorte de bida marinera, ogni contatto con tutti i fratelli tokkàor d’àtteror mares. E ci viene preclusa la porta della storia, per un incontro mancato, per un amore non intravisto né attuato. La colpa dunque ricade certo sullo “straniero”, ma non in quanto, metafisicamente, tale; non l’estraneità è nemica, né l’intimità propria – la sardità – è un mondo perfetto che sia stato violato nella sua perfezione: perché solo l’incontro civile è fecondo, se sia incontro d’amore. L’isola è imperfetta nella sua “conclusione”: è un’amazzone che attende d’esser definita e aperta alla storia, alla fecondazione dell’“altro”, sottratta all’incanto mitico dei furiosi, autotrofici umori della vendetta. La colpa del Fenicio – di ogni Fenicio poi capitato dentro il recinto ammaliante – è stata, ed è quella di aver sottovalutato l’incantamento, di aver usato nei confronti di esso parametri che ad esso non sono propri; di essere stato, come ancor oggi è, parte di quella zente moderna k’iski’ ttottu / e krede’ ggalu oye in die i’ ssos ispìritos. La sicumera del logos – che sa «il governo dei remi e della vela», la direzione dei venti, «la rotazione degli astri / e le comparse lucenti della luna» – evita, e sempre eviterà, perché‚ incapace di leggerlo, l’incontro col mythos e col pathos, tanto innocente quanto ferale, e mortifero in quell’Isula inkantada, inube / / non bi naskia’ pperuna grista d’òmine / si non pro sa morte.

Ed il fio sarà pagato tanto dal carnefice quanto dalla vittima, come in ogni vilipendio d’amore: le due sfere polari rimangono reciprocamente impenetrabili, separate e condannate da una liquida, fluida, barriera d’acqua e sale: di quella stessa materia che invece potrebbe essere tramite amoroso verso i fratelli d’oltremare: verso la fratellanza.

Raramente, ci pare, si è avuta con tanta penetrante bellezza poetica una intuizione così felice e acuta della Sardegna e della sardità: fuori dai canoni, tanto spesso lamentosi o rancorosi, della retorica insularistica, ma anche ben difforme e asimmetrica, strabica, rispetto a quello sguardo, pur anche poetico, cui a stento riesce lo squarcio nella superficie dello specchio: nel cui gorgo ammaliante, tante volte, come in una “nurra”, esso precipita, perdendosi abbagliato da cannibalesca autofagia.

Ma il valore del componimento trascende certo la tematica e la problematica della sardità, per non dire delle sue cristallizzazioni poetiche, o dei suoi sociologismi abusati. La Sardegna, la sua storia e il suo mito diventano metafora, viva e incarnata, dalle dimensioni ben ampie, che risolve poeticamente contraddizioni dallo spettro ermeneutico largo, ma che possono tradursi nel rapporto fra diversità, nella necessità di leggere codici diversi e di farli interagire interpretandoli, di rendere i fantasmi alla loro significanza: sì che, senza sopprimerli, venga interdetto il rischio che precipitino nell’ossessione, innestando invece su di essi ragioni che, fattesi duttili alle necessità dell’esistere, li elaborino in parola, poetica.

E la parola poetica di Antonio Mura si muove, lo si è visto fra lirica e racconto. I quattro componimenti, intitolati Addobiu e numerati progressivamente, hanno un andamento e una tonalità narrativa senza che con questo sfuggano alla liricità. Si tratta di rappresentazioni fantasmatiche che assumono dimensione di figuralità, mediate dall’occasione narrativa di episodi veri/verisimili che hanno il carcere come scena e ambientazione esperienziale. Tali squarci narrativi fissano in gesti stravolti, icone di un’umanità sofferente, vittime e carnefici di una storia quasi fuori dal tempo, e che ad esso si aggrappa per deboli appigli, atti appena a sostenerne la narratività; figure immobilizzate dallo shock di un evento che le impietrisce, in pose espressionistiche di maschere tragiche con cui fanno un tutt’uno: così offrendosi al conoscere dello sguardo altrui. Si veda il disgraziato che ha ucciso il collocatore comunale che gli negava il diritto al lavoro, e che di tanto in tanto, con l’anima equipartita fra Caino e Abele, nell’oscurità della cella pranghiat a ssuppeddu, e preso da un tremito di follia, cantava forse sognando quel lavoro di uomo che gli spettava secondo umana giustizia. O lo stupratore di una bambina, ancora in posa di unu voku vughìu, e kkin okros ke bberre, e che galu nde vit isprantàu – schiantato/stupito – di sé e del suo atto; mentre lei, s’iskuredda, la misera, l’aia’ ddau de borta su kerbeddu, e, folle, trafitta dalla prova supportada di amore e di ispantu, va ripetendo per le strade, ùmile e nnuda ke ffrore vïola, coatta nell’evento che la segna, il gesto di offrire il proprio corpo.

Il carcere si fa quasi un girone infernale, senza però né condanna né salvezza; luogo che, visitato dall’io narrante/poetante, a costui si rivela proprio come il primo addobiu: egli lo trasforma, trasfigurandovelo, in istanza allegorica e allegorizzante (si veda il dantesco pape Satàn agghiacciato, e la figura dell’io narrante che, con un giglio in mano, si reca agli incontri con gli altri uomini imprigionati, dopo il tragico ossessivo incontro con sé esperito nella cella d’isolamento). Il carcere è il “luogo” di fissazione immota dell’esperienza da cui non si sfugge, esso si volge in segno essenziale che trasforma l’essere in figura di pietra inalterabile. Luogo di incontro, di addobbo appunto: e di conoscenza; allegoria psicologica di un esistere che si porge a un giudizio che per ora non si dà. Allora, ci pare proprio, il legame del poeta con la terra d’origine si ritrova proprio in questa figuralità carceraria e infernale, dove, così come in Barbagia, ogni figura è anche qui marmorizzata e offerta alla conoscenza nella sua definitezza immaginaria, ma pure inconclusa e aperta rispetto a un giudizio che resta atteso. La “modernità”, che a episodi visita perfino la Sardegna e il suo cuore più riposto, fa breccia questa volta attraverso non tanto l’indagine sociologica, ma tramite uno sguardo perplesso che, immaginosamente antropologico e straniato, addita all’odierno, pendente in attesa di giudizio, un possibile innesto sul tronco dell’inerte arcaicità.

È il segno della religiosità sempre sottesa alla poesia di Antonio Mura, e che tanto deve alla paterna poetica di Pietro. V’è certo in più l’inevitabile apporto del tempo che è suo, lo sguardo sociologico più affinato, la tensione morale che si appiglia non a forme di etica tradizionale, ma a una problematica della definizione del giudizio morale fondata sul dubbio, e che si aggrappa agli incontri esperienziali. Una religiosità del gesto umile e quotidiano – si veda Ma kando kin s’okru lukende – che si svincola da forme rituali acquisite e dalle sicurezze che vi si autoesauriscono. Senza nessun rinnegamento, la linfa della religiosità poetica attinge dalla quotidianità del lavoro, dalla speranza riposta nel travaglio contadino, nella mano che accarezza il cane umile amico e nella quale si trasferisce l’energia amorosa, quella del dio giusto e minuscolo che le preghiere avìte e tràdite non riescono (più/ancora) a raggiungere. E così anche la descrizione della festa e della processione di Sant’Isidoro – in Assor massàyo’ lli’ llukìan sos okros – si carica delle stesse valenze e degli stessi modi di scrittura propri e cari alla poetica del Mura. Qui la descrizione del rituale ha quasi un andamento di indagine antropologica, se non fosse che si scorge la partecipazione dell’io poetante, proprio nel suo aderire all’emozione che partecipa alla festa del rito (e) dell’immaginario (antropologico) contadino: e proprio mentre li descrive. La voce poetante si fa così filtro e si presta quale voce neutralmente mediatica di un tale mondo e di un tale sentire; con visione che oggettivamente scava: ma dal di dentro, alternando lo sguardo fra un condividere emotivo e una più discosta oggettività. Ne risulta una mistione di ritualità cristiana e di perennità pagana, amalgamate in una pietas che rapporta l’intrinseca religiosità ad una cifra tutta umana.

Un simile atteggiamento di “scienziato” partecipe dell’essenza di ciò che osserva, il gesto di adesione oggettivante costituiscono il nerbo generatore di liriche a caratterizzazione maggiormente soggettiva, o espressione di una sentimentalità più diffusa in cui ancora la voce poetica si fa medium compartecipe, ed imparziale registratore di stati e modi insiti nel sentire della comunità: rifacimenti personali di “generi” tradizionali,come i Berbos assa luna morta, filastrocca apotropaica alla luna; o l’attittidu per il giusto ucciso violentemente “da mano assassina”, di Billu, su zovaneddu, quasi un seguito ideale del paterno L’hana mortu cantande. Dove il lirismo, tutto soggettivo, trova il suggello della propria intima voce proprio in modalità espressive della tradizione da cui si fa prestar la voce e dietro cui finge di nascondersi. Così innestando, con “preteso” spirito oggettivo, modernità di sentire e d’intento entro forme più arcaiche e primarie d’espressione. Da qui, da questo facile adattamento reciproco, scaturiscono modalità compositivo poetiche che l’autore aveva acquisito e plasmato rapportandole alla lettura dei poeti surrealisti, e di Eluard in particolare, sebbene neppure ci paia assente più che un’eco di Federico García Lorca: pensiamo alla dissoluzione del corpo e dell’anima nella natura e nelle sue forze elementari e primarie, con visione straniante che rende agenti vivi gli atomi della materia, portatori di un sentire religiosamente materializzato: perenne rigenerarsi della sostanza materiale che panteisticamente si fa anima cosmica. Ma, va anche aggiunto, anima di poesia: ché vi sono infatti, in questi componimenti, tratti di dichiarazione di poetica: Pro òminer de bona bentura / suzzettos a kkada isagura / app’a kkurres ki’ ssar màzzines / galanas e dde durkura / durkes komente likazzines, come nei Berbos assa luna; poesia, ammaliamento immaginifico e forza dell’incanto della parola: ancora pare assimilata la lezione surrealista tramite enzimi tutti propri di un dire che, qui, inoke, in kusta terra, non si è affatto spento, ma fluisce in linfa alimentatrice, significante e risignificata.

Questa vena “panteistica” si ritrova peraltro in Ke bbelas assu bentu. Qui il lirismo dell’io si fa più immediato e personale: e il volger del vento può turbare la solatia quiete portandovi il profumo della morte, mentre il rosa e nero dei rosolacci apre ffertas aspras sambenande; e allora – può dire la voce dell’io, riportato, nel suo stesso pensiero e pensare, a elemento naturale – kusta terra / a mmanzanu mi vròriti / a ssero kuba kuba minde mòriti. Così come la trasfigurazione di sé che troviamo in Kando ass’impuddile si pesat; della quale andrà detto peraltro che è stata privata degli ultimi versi: e, così, alterata nel significato, è stata defraudata di quell’intimità lirica che invece, nella completezza compositiva, assumerebbe maggior vigore tematico e assegnerebbe spessore più alto al disciogliersi dell’io nella naturalità delle cose e dell’amore. Motivo, proprio quest’ultimo, che maggiormente viene a soffrire dell’amputazione squilibrante la struttura comparativa del componimento, che ha per tema portante l’amore quale sacrificio naturale innescato da un sonniu de birde, nel trionfo primaverile della fioritura.

Amputazione che è poi di quello stesso segno che ha portato alla soppressione di un cospicuo numero di componimenti ugualmente connotati dalla medesima intima impronta lirica, e che qui vengono pubblicati nella seconda parte della raccolta. Certamente la loro tonalità è diversa, e spesso assai, rispetto a quella delle poesie edite nella raccolta del 1971; e la loro presenza avrebbe certamente incrinato la compattezza che significativamente si rispecchiava nel titolo stesso, Lingua e dialetto: sintesi e segno – al di là di ogni pretesto di più immediata polemica – di quell’innesto, già osservato, che trasferisce umori moderni sul tronco tradizionale, di quel processo cioè che trascende la peculiarità spaziale e temporale in un processo metaforico, dilatando il quid della sardità in figura d’esistenza dalle dimensioni universali. Ciclo che rende il “dialetto” supporto indispensabile in cui immettere la “lingua” che vi si sostanzia. E tuttavia questa sottrazione resterebbe ferita aperta che ci priverebbe di una corda sonante dell’anima diAntonio Mura, nonché di un antecedente poetico che spiega tanta parte della produzione successiva, o quanto meno ne pone e ne segna i prodromi, e non solo cronologici. Certo alcuni di questi componimenti possono risultare oleografici, si pensi a Sas primas iskolas, o a Sa notte de tottu sor mortos, in morte del padre: ma proprio qui, come privarci dell’immagine poeticamente fulgida dell’“io” che aspetta, per la rituale notte della cena dei morti, il morto suo, il suo caro padre, “nella stanza degli specchi”, in s’apposentu ’e sos isprikos ? specchi di rame certo! del metallo di quel padre, ramaio isilese, che così spesso ricorre, per il tramite metonimico della “sua” materia soliana, anche nella raccolta edita; specchio metallico che riflette la luce poetica, genesi e meta del sentire e della capacità d’essere “autore”. Né vorremmo defraudarci della metafisica felicità d’invenzione testimoniataci da In kerta de isperanzia, d’eco forse baudelairiana – con sos sorikes che rosikan su tempus, e con sa kane che, «scrutando il nascondiglio dei ricordi», mosset sos sensos – ma con sicuro debito anche petrarchesco, tanto per la forma sonetto, certo insolita al Nostro, quanto per quell’andar misurand’oras kin sos passos lentos / in s’orolozu ’e su kelu appias in sorte, mentre fiorisce, «tra le sorgenti del buio» e nella fuga irreparabile del tempo, l’irenica unica speme di trovar sa ruk’e Zesus tra sor duos ladrones. Radice più intima di quella religiosità così propria della raccolta, dove, s’è detto, la ritroviamo trasposta in forme di più distesa e oggettivamente accorata distanza.

Altre composizioni, di queste fin qui inedite, possono risultare più “facili”, più inclini a formule corrive e standardizzate di una poesia “postnovecentesca”, e se ne possono dunque comprendere le ragioni che le hanno depennate. Ma anche qui non mancano semi felici di quanto fruttificherà di lì a poco: e non vorremmo dunque tralasciare il sottile erotismo di Su semen de sas ankas, dove, pure, l’universo femminile, fotografato nell’icona dinamica di un ancheggiar di donna a passu ’e dillu, si riassorbe nella naturalità elementare, che la feconda tra erba birde e terra; erotismo che ritroviamo più dispiegato, ma sempre nella stessa cifra di trasfigurazione naturale, anche in Giara de Gesturi.

Ma per tornare alla poesia della raccolta primaria, Lingua e dialetto, e per concludere questa breve rassegna tematica del cosmo poetico di Antonio Mura vorremmo ricordare alcuni componimenti che si pongono quasi come una sintesi della sua attività, da qui traendo tutto il valore. In Su respiru iskurtamus il tema della sardità intesse sapientemente il registro sociale, quello esistenziale oggettivo e soggettivo e quello più intimamente lirico. Quella trasfigurazione dell’una, di queste tonalità di registro e di contenuto, nell’altra, non ha qui necessità d’essere, visto appunto il loro manifesto coesistere testuale. E dunque l’essere dei Sardi è quello d’essere ke zzente yakarada, bandita e dispersa, orfanor de nassiòne, kolònia disarmada e allo stesso tempo, con felice ossimoro, foresta ’e armas, dove le fin troppo armate disamistades impongono l’essere disarmati all’urgenza frustrata di farsi nazione. In queste terre aspre allora fioriscono solo gli affetti intimi e familiari, mentre il tempo lo si misura solo in funzione dell’esser per la morte; ma questa asperità, kust’ìsula, antica quanto lo è la morte e il tempo, può esser la vergine promessa di un’alba nuova, che sta solo cominciando a spuntare, di un eterno, immoto, rinascere e risorgere.

Terra insulare fonte d’esperienza primigenia, ricca d’umori, essenziale quanto lo è l’eterna radice dell’esistere di cui essa è immagine, e delle più remote trame del destino primordiale. Perché se anche here, qui, is no water but only rock / rock and no water, questa terra, isolata insularità desolata, è/può essere una terra birde meda, come recita la poesia a questo verso intitolata, che riprende l’ammaliamento della quinta sezione – What the thunder said – dell’eliotiana Waste Land (di cui Antonio Mura compì una traduzione in sardo tuttora inedita), con l’ossessivo ripetersi e rincorrersi, in una sorta di filastrocca monitoria e scaramantica, di pietra e acqua, rock and water: preda e abba, abba e preda. L’isola di pietra desolata, fatta di pprùghere e abba vughìa, di preda sikka, farà sgorgare l’acqua, ancestralmente agognata, demone ossessivo, proprio dalla pietra stessa: perché pro àer abba bbi kere’ / ppreda, preda kin preda / e ppreda e ggalu preda / e ssudore e ssàmbene de vrades; anche la pietra, lavorata di sudore e sangue fraterni, vincerà il destino in essa stessa insito, risolvendo l’ossimoro in endiadi. Tema sociale certo, tema del lavoro se è vero che i fratelli devono farsi llestros pikkadorer de preda, antonomasia, in limba, di quel lavorare che stanca, della fatica che “schianta”; ma visto l’intertesto, sotteso e generatore, non si sfugge a una valenza morale, se è vero che su vrade non deve essere troppu lestru in disizos, così come è vero che non «l’indolenza ostinata porge l’acqua», ma solo la pietra stessa: murada karkinada de morte; in una terra come questa che, come altrove il poeta ha detto, è donu prezziosu d’unu deus pikka-prederi, «di un dio spacca-pietre».

Tale lezione morale-esistenziale fruttifica nell’ultima – per collocazione, se non per cronologia – poesia della raccolta, Morimus una borta a kkada bida, sorta di testamento spirituale e poetico, quasi congedo dal vivere, e testimonianza di cogente necessità di “imparare, kada mamentu, a morire”. Qui è l’ammettere che tardu mi so sapìu dessu vàkere e che ssu non faker’ es’ su pèyur male; qui è la necessità di un fare che dia senso all’essere, e all’essere stato qui, fra tempo e spazio, lasciando una traccia di sé, una tratta, unu sinzu, unu vrammentu, che, testimone d’un esservi passato, consegni alla morte – alla morte antika – riscattandolo dalla kisina ’essos ammentos e dalla vanesia speranza del ricordo dei posteri, nient’altro che l’essere.

Tutta questa straordinaria produzione mitopoietica, nozionale e morale, di Antonio Mura è affidata al veicolo di una ricerca metrica e ritmica di straordinaria finezza. Crediamo si possa dire che l’ascendenza poetica di questo aspetto della poesia di Antonio Mura vada ritrovata nel Pavese di Lavorare stanca (di cui egli aveva tradotto alcune poesie, traduzioni tuttora inedite); innanzitutto per l’andamento ritmico testuale di tipo narrativo, disteso in unità compositive di buon ampio respiro, costruite in genere su versi lunghi di misura irregolare e diversa, il più breve dei quali è l’endecasillabo, che si dilata variamente in versi più lunghi di dodici, tredici, quattordici sillabe; con alternanza assortita e sapiente che interrompe serie isometriche, spesso endecasillabiche, con l’inserzione di unità o sequenze metriche altre, di dimensioni più estese, tendenti così a immettere un significato, appunto narrativo, entro la tentazione proclive alla sincronia liricizzante; e a romperne la seduzione con un fascino più aspro e rugoso che rimarca, in sovrabbondanza, l’anomalia fratturante e la transizione. E ciò quando si pensi che risulta praticamente impossibile sottrarsi allo stupore instillatoci dalla tentazione di espungere quella parola che, non strettamente necessaria al senso più ovvio, sottratta, ristabilirebbe la giusta misura, ma il cui defalco varrebbe per una lacerazione testuale dolorosa. Tensione, dunque, della genesi metrica nella frapposizione del registro discorsivo entro il tessuto lirico: tensione che suggerisce, anche formalmente, quell’armonia a base contrappositiva che è la risultante del proiettare, come visto, la problematica del qui e dell’ora su di uno sfondo metafisico atemporale; o che viceversa fa deviare il “cantato” dell’acronia verso la stridente stonatura del “parlato” immanente. E d’altronde la poesia del Mura porta a un grado sapientissimo l’abilità, così propria della poesia di questi nostri duecento anni, di costruire, variandoli, metri differenti inforcati sull’enjambement, o di recuperare,in pieno ritmo e metro, a cavallo della loro soglia, versi che vanno altrimenti disciogliendosi nella prosa: con variato e raffinato effetto di oscillazione e di rilancio melodico; ciò che avvalora, riconfermandolo, quell’andar fluttuando tra il fervore immaginifico lirico-mitico e il registro più dimesso del quieto ragionare.

Ma la tecnica – lo abbiamo visto – è anche quella fatta del recupero di forme tradizionali delle composizioni a mo’ di filastrocca, con metro, quasi, regolare dei Brebos assa luna morta e di Terra birde meda, dove anche “l’irregolarità” della variazione scorre libera e impercettibile nel fluire dell’incantesimo musicale.

Nuorese eccentrico, profeta d’“altra” patria fu dunque Antonio Mura, bilingue barbaricino del limite, proveniente com’è, per la via del paterno amore, da Isili: da quel Sarcidano che, frontiera delle eterne due “culture” e “geografie” isolane, è la terrazza dove la Barbagia si affaccia sui Campidani; che è la giara in cui questi ultimi, portando con sé su nusku dess’ aranzu in frore, cominciano ad assumere la rugosità montanara. Poeta che risente, cantandola, di tutta l’ineliminabile forza del mito primigenio, ma ne percepisce pure il limite che intrinsecamente esso costituisce, se non fatto reagire con altre linfe e con profumi altrui. Cantore del tempo perenne e pietrificato, misurato e circolare, che rischia però di tradursi in quello della “morte antica”, del perpetuo morire se dal suo ritmo petroso non si sappia far scaturire quell’acqua e quel verde che, senza annullarlo, lo vivifichino, fertile dono alla terra, con ssudore e ssàmbene de vrades. E, della terra, la sua, egli è auspice: non compiaciuto degli stereotipi di essa, sebbene ammaliato da quei suoi gesti, effigie di un metafisico mito.

Egli fonde in intima e originale unità elementi poetici diversi, che già abbiamo avuto modo di vedere; dall’idea eliotiana della circolarità del tempo e del ritorno – o, qui, forse del permanere – mitico, fino alla necessità, da questo illuminata, dell’apprendere il morire; dal solidarismo sociale eluardiano, alla religiosità “naturale” dalla stessa ascendenza letteraria, che si ritrova fin nel titolo primigenio dell’opera del Mura – il quale, votando l’ispirazione poetica a “verdi erbe”, richiamava un topos tanto frequente nel contemporaneo poeta francese; di questi, ricorderemo, egli aveva provato la traduzione in sardo, finora inedita, della Poèsie ininterrompue (grazie alla quale il Mura vinse il Premio Ozieri per la sezione riservata ai traduttori). E si innesta, quest’ascendenza eluardiana, su di una sensibilità e, forse, un sensismo che si possono far risalire a Federico García Lorca: nella presenza frequente del chiarore lunare; nell’inserimento del “dialogato”; ma anche nel gesto avìto poderoso della stirpe remota, risolto in tragico canto di morte, o, qui, nella nenia lamentosa dell’attittidu; per non dire della passione per il paesaggio che risolve in stilemi più vicini alla poesia dello spagnolo certe aspre risoluzioni formali e certa ideale severità del francese. Né andrà dimenticata la relazione con i poeti italiani: già s’è detto del debito che Antonio Mura contrae nei confronti della lezione metrica di Cesare Pavese: a questi si devono però anche tanta parte di quell’andamento narrativo così frequente, sebbene non assoluto, della poesia muriana, nonché la centralità esistenziale del tema del lavoro, e non a caso Mura si fa traduttore di Esiodo; né si possono passare sotto silenzio sintagmi poetici come ci schianta la fatica (innestato in italiano anche nel testo sardo) o il mestiere di vivere (che traduce s’arte dessa bida), dove si posa più che l’eco pavesiana; ma ci pare che questa indubitabile influenza del poeta delle langhe risulti però filtrata dalla lettura di Franco Fortini – poeta anch’egli caro al Nostro – attraverso cui la vena poetica dal registro narrativo “oggettivo”, propria del Pavese, si stempera in toni di un più disteso ragionare, di un maggiormente lirico colloquiare con se stesso, più soggettivamente incline al recupero memoriale.

E c’è vivo, certo, in Antonio uno spirito – ben altrimenti più forte e maggiore di quanto la filologica intertestualità non ci consegni – che in lui riverbera, soliànu, dal cupreo specchio di Predu.

Maurizio Virdis

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NOTA BIOGRAFICA

Antonio Mura nasce a Nuoro il 24 luglio 1926, da Pietro,

ramaio di origine isilese e poeta tra i maggiori del Novecento

sardo, e da Maria Antonia Bande Ticca.

Il tempo della sua prima giovinezza, dagli studi elementari

a quelli superiori, coincide con la parabola evolutiva del fascismo

fino al termine della seconda guerra mondiale. Anche

in Sardegna, come altrove, il regime aveva condotto la sua vana

battaglia contro l’uso dei dialetti e delle lingue a diffusione

regionale, nel tentativo di far corrispondere alla solida unità

statuale e politica, una unità culturale.

Dopo la conclusione della guerra, nel 1945, Antonio Mura

si trova, con in tasca un diploma di ragioniere, a dover decidere

del suo futuro. Tra il 1947 e il 1948 collabora al periodico

Aristocrazia, fondato e diretto da Raffaello Marchi, poeta e

attivo animatore culturale che avrà un ruolo assai importante

nella redazione definitiva di Lingua e dialetto.

Il giornale si caratterizza come una “rivista sarda di cultura

sociale” ispirata a ideali filantropici. L’“aristocrazia” a cui rimanda

la testata non è ovviamente un’aristocrazia di sangue perché

– afferma Marchi nell’editoriale del primo numero – ‹‹le aristocrazie

storiche furono oligarchie dei più violenti e dei più astuti,

volte solo a instaurare sistemi di privilegio e a reprimere ogni

slancio al progresso››. I migliori cui allude Marchi sono ‹‹i migliori

intellettualmente, i migliori moralmente, i migliori nelle attività

pratiche››; insomma optimi viri ‹‹animati da amore››, capaci di

guidare ‹‹fraternamente›› le ‹‹moltitudini infelici››. Ma questa attitudine

prevede ‹‹l’antico ideale di aristocrazia educatrice, amplificato

e impinguato con millenni di vita e di pensiero che comprendono

le più vitali esperienze dell’umanità, dal cristianesimo

al socialismo››. Le idee filantropiche dunque sono in qualche

modo ancorate alla realtà tramite il riferimento a due tradizioni

di pensiero assolutamente vitali che, almeno potenzialmente, in

quel momento storico avrebbero potuto intrecciarsi.

In quegli stessi anni Antonio matura la decisione di iscriversi

alla facoltà di Scienze economiche e marittime di Napoli,

come volesse comprendere la stranezza di quei mari che,

come affermerà in Kando sor bendulerir de Venìcia, per i sardi

sun murallas, “sono muraglie”. Anche qui, a Napoli, il suo

bisogno di riflessione e di azione lo vede impegnato come

collaboratore della rivista anarchica Volontà e nell’attività di

gruppi libertari. Nell’ambito di questa militanza subì una reclusione

nelle patrie galere per aver distribuito volantini di

contenuto anarchico; dei pochi giorni di prigione il poeta ci

parla nelle cinque poesie intitolate Addobiu.

Sta di fatto che, se non era stato soddisfatto dei suoi studi

di ragioneria, Antonio Mura non lo fu nemmeno della disciplina

scelta per gli studi universitari: egli cominciava a prendere

coscienza di essere poeta e maturava un interesse sempre

maggiore per la letteratura. Abbandonò così l’università prima

di aver conseguito la laurea. Questo “periodo napoletano” fu

comunque molto importante per Antonio: lesse molti autori,

italiani e stranieri, confrontò la sua esperienza con altri giovani

intellettuali, prese coscienza delle sue capacità, iniziando a

esercitare il suo pensiero nella tortuosità degli “a capo”. Partiva

dunque da una forte spinta a “dire”: si trattava solo di imparare

a farlo in un certo modo.

Al suo rientro a Nuoro gli si presenta una città prostrata

dalla disoccupazione, dall’emigrazione, dall’arretratezza. Il 51%

dei lavoratori è addetto all’agricoltura. Centinaia di migliaia

di sardi erano emigrati all’estero in cerca di maggior fortuna.

Il tasso di analfabetismo è assai elevato. Il reddito medio pro

capite colloca la Sardegna al penultimo posto tra le regioni

italiane. In un quadro simile ad Antonio, ragioniere, non resta

che varcare nuovamente il mare.

Dopo aver aiutato il padre Pietro nel suo negozio di ferramenta,

dopo aver trovato un impiego in un’azienda che però

fallisce e chiude, si vede costretto ad allontanarsi dalla sua

terra e dalla giovane moglie Nereide Spano, sposata il 14 febbraio

1963, che stava per dargli Ludovico, il primo dei quattro

figli. Si reca in Germania nello stesso anno a fare l’Hilfsarbeiter,

l’aiuto operaio nella fabbrica della Volkswagen. Del valore di

questi pochi mesi di emigrazione ci resta una traccia nella

poesia I’ ssas terrar frittar dessu nord Europa che vede l’opposizione

di due mondi, due modi di intendere la vita e i rapporti

tra gli uomini, fortemente marcata da un uso frequente

del dimostrativo kussa/kussu.

Antonio Mura torna deluso e amareggiato a Nuoro e, dopo

una brevissima parentesi di insegnamento in un Istituto

Tecnico della provincia, viene assunto presso l’Associazione

dei commercianti.

In questi anni è già un poeta maturo, ha raggiunto una sicurezza

nella scrittura che gli permette di poter rendere pubbliche

le sue poesie. Partecipa al Premio Ozieri, che nel frattempo

era divenuto un importante punto di riferimento per la

produzione letteraria in lingua sarda, e prepara una raccolta

di sue poesie dal titolo Su birde. Sas erbas che poi, anche per

l’intervento strutturale e ideologico di Raffaello Marchi, muterà

in Lingua e dialetto. Poesie bilingui.

La politica culturale del Premio era chiara e prevedeva,

come affermerà Antonio Sanna, l’intenzione ‹‹di scegliere, della

tradizione, quanto v’era di valido, rifiutando quello che, pure,

poteva piacere di più a un certo gusto popolare, ma significava

evasione e fuga dalla nostra realtà e dall’impegno››, e di

portare ‹‹la poesia dell’Italia, dell’Europa e del mondo nell’ambito

degli interessi sardi. Avvicinarli a Ungaretti, a Quasimodo,

a Montale, a Garcia Lorca, a Neruda, a Hikmet…››.

Nel 1966, all’età di 65 anni, muore il padre Pietro la cui

presenza umana e letteraria nei versi di Antonio è costante.

Tra il 1968 e il 1971 l’attività letteraria di Antonio si intensifica

e cominciano a giungere riconoscimenti e gratificazioni

notevoli. Traduce numerosi autori (Eliot, Auden, Eluard, Valery,

Neruda, Pavese, Fortini, Esiodo) la cui influenza è riscontrabile,

in misura diversa, nella sua produzione originale.

Nel 1968 vince il primo premio nella sezione “Poesia sarda”

del Premio Ozieri con la poesia Ammentos de emigrante (una

stesura di I’ ssas terrar frittar dessu nord Europa). Negli ultimi

mesi dello stesso anno prepara la complessa traduzione di Poèsie ininterrompue di Paul Eluard con la quale nel 1970

vincerà il primo premio nella sezione “Traduzione” del Premio

Ozieri. Nell’aprile del 1969 vede la luce l’Antologia dei poeti

dialettali nuoresi di Gonario Pinna, nella quale Antonio Mura

è presente nella duplice veste di traduttore dei versi del padre

Pietro e di poeta antologizzato. Nel 1970 la poesia Unu populu

es’ kupinde sa zustissia non può essere premiata per la sezione

“Poesia sarda” del Premio Ozieri per via del regolamento

che impediva di premiare un autore che avesse vinto in

quella sezione nel triennio in corso, ma la giuria gli assegna

un diploma di merito e una medaglia.

Dell’anno seguente sono la pubblicazione di Lingua e dialetto.

Poesie bilingui e il primo premio ex aequo della sezione

“Grazia Deledda” del Premio Ozieri con la poesia Billu, su zovaneddu.

Nello stesso XVI Premio Ozieri, cui aveva partecipato

curiosamente con il motto Su birde… sas erbas, la giuria

‹‹pur ritenendo degna del massimo riconoscimento›› la poesia

Su respiru iskurtamus non può premiarla per lo stesso motivo

del ’70, ma, ‹‹in considerazione di tutta la sua opera di poeta e

di studioso della lingua isolana››, assegna ad Antonio la coppa

del Presidente del Consiglio Regionale Sardo.

Proprio mentre raccoglieva i frutti del duro lavoro, mentre

la sua fortuna di poeta andava crescendo, viene colpito da

una grave malattia e muore l’11 dicembre del 1975 a Bologna,

lontano dalla sua terra, oltre la muraglia del mare. A custodire

i suoi versi e a continuare a promuoverli rimane la moglie Nereide

a cui si deve anche l’interessamento per la pubblicazione

postuma di Und wir, die klugen Mondmeister, traduzione

tedesca di Lingua e dialetto. Poesie bilingui a cura di Wolfgang

Dietrich.

Duilio Caocci

__________________________________________

NOTA BIBLIOGRAFICA

SCRITTI DI ANTONIO MURA

Lingua e dialetto. Poesie bilingui, Nuoro, Edizioni Barbaricine,

1971.

Und wir, die klugen Mondmeister, traduzione tedesca di Lingua

e dialetto. Poesie bilingui, a cura di Wolfgang Dietrich,

München, Huber & Klenner, 1982.

ANTOLOGIE E POESIE IN PERIODICI

“Ammentos de emigrante”, in La Nuova Sardegna, Sassari, 29

settembre 1968.

“Ammentos de emigrante; Lamentu; Die de Beranu”, in G. Pinna,

Antologia dei poeti dialettali nuoresi, Cagliari, Fossataro, 1969.

“Su respiru iskurtamus”, in La Nuova Sardegna, Sassari, 14 marzo

1972.

“Kussertu”, in La grotta della vipera, Cagliari, a. I, n. 2, estate 1975.

“Artu e grave inoke est su lamentu”, in La grotta della vipera,

Cagliari, a. III, n. 10-11, estate 1978.

“Ammentos de emigrante; Billu, su zoveneddu”, in I poeti del

Premio Ozieri, vol. I, Cagliari, Della Torre, 1981.

“Doch wenn dann, mit leuchtenden Augen”, traduzione tedesca

di “Ma kando kin s’okru lukende”, a cura di Wolfgang Dietrich,

in Westermanns Monatshefte, marzo 1982.

“Unu populu es kupinde sa zustissia; Mi naban sos amicos”, in

Trent’anni di poesia in Sardegna, a cura di R. Manelli, G. Carubelli,

Cagliari, Fossataro, 1982.

“Solu sa luna, inoke, érema sorre; Su banduleri bendidore de

ramene; Ke bbelas a su bentu; Prantar dessu kelu; Su respiru

iskurtamus; Sos ispentumor dessa bida”, in Le parole di legno.

Poesia in dialetto del ’900 italiano, a cura di M. Chiesa, G. Tesio,

Milano, Mondadori, 1984.

SCRITTI SU ANTONIO MURA

“Il poeta A. Mura di Nuoro vince il XIII Premio Ozieri per la poesia

sarda”, in La Nuova Sardegna, Sassari, 29 settembre 1968.

G. Pinna, “Antonio Mura”, in Antologia dei poeti dialettali nuoresi,

Cagliari, Fossataro, 1969.

R. Marchi, “Dialetto e cultura”, introduzione ad A. Mura, Lingua

e dialetto. Poesie bilingui, Nuoro, Edizioni Barbaricine, 1971.

G. Filippini, “Lingua e dialetto. Poesie bilingui di A. Mura”, in

L’Unione Sarda, Cagliari, 3 novembre 1971.

S. Putzu, “I cognomi sardi e un poeta elegiaco”, in L’Ortobene,

Nuoro, 20 novembre 1971.

R. Ruju, “La politica del poeta”, in La Nuova Sardegna, Sassari,

19 marzo 1972.

G. Tellini, “A. Mura, Lingua e dialetto. Poesie bilingui”, in Il Ponte,

Firenze, 31 agosto-30 settembre 1972.

I. Delogu, “Due poeti dialettali della Sardegna d’oggi”, in L’Unità,

Roma, 26 marzo 1973.

S. Salvi, “Sardigna”, in Le nazioni proibite, Firenze, Vallecchi,

1973.

S. Salvi, “La minoranza di lingua sarda”, in Le lingue tagliate,

Milano, Rizzoli, 1975.

D. P. Mingioni, “A. Mura, il poeta solitario della speranza”, in

L’Ortobene, Nuoro, 7 marzo 1977.

A. Sanna, “Poesia tradizionale e poesia moderna in Sardegna”,

in Linguaggio poetico e linguaggio musicale, a cura della

Biblioteca “S. Satta” di Nuoro, Cagliari, Altair, 1981.

C. Pirisi, “Umanità e sardità di un poeta nuorese”, in La nuova

Città, Nuoro, 3 maggio 1982.

R. Manelli, G. Carubelli, “Antonio Mura”, in Trent’anni di poesia

in Sardegna, Cagliari, Fossataro, 1982.

“Antonio Mura”, in Le parole di legno. Poesia in dialetto del

’900 italiano, a cura di M. Chiesa, G. Tesio, Milano, Mondadori,

1984.

N. Piras, “Il rame e le terre fredde: Pietro e Antonio Mura”, in

L’amarezza leggiadra della lingua, atti del convegno “Tonino

Ledda e il movimento filibristico del Premio di letteratura

Link all’articolo in Sardegna Digital Library http://www.sardegnacultura.it/documenti/7_26_20060401172236.pdf

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