Cronodiatopia
sarda
Maurizio
V irdis
Università
degli Studi di Cagliari
in
Studi
linguistici in onore di Lorenzo Massobrio
a
cura di Federica Cugno, Laura Mantovani, Matteo Rivoira, Maria
Sabrina Specchia. Torino, Atlante Linguistico Italiano, 2014, pp.
1097-
1110
È
ben noto che il dominio linguistico del Sardo ha una fondamentale
divisione
diatopica
che divide il suo spazio geografico in due metà, l’una
settentrionale, l’altra
meridionale.
È
chiaro ed ovvio che le isoglosse relative ai duplici esiti delle due
macroaree,
come
in ogni situazione di diatopia, non coincidono; esse tuttavia,
addensandosi
tendenzialmente
al centro dell’Isola, tengono comunque un andamento est-ovest che
divide
le due metà dello spazio in un’area settentrionale e in un’area
meridionale.
Chiameremo
le due macroaree, secondo tradizione e per brevità, Campidanese la
meridionale
e Logudorese la settentrionale, prescindendo dalla loro coincidenza
ri-
spetto
alle regioni geografiche e storiche da cui prendono nome: il
Campidano e il
Logudoro.
Le
ragioni tradizionalmente addotte per spiegare tale bipartizione sono
ben anti-
che
e possono farsi risalire a posizioni prescientifiche o
protoscientifiche relative alla
dialettologia
sarda. Su tali ragioni ha pesato, e ancora pesa, il pregiudizio
‘retorico’
consistente
nella presunta maggior vicinanza del Logudorese al Latino. E in
effetti
se
guardiamo a determinate strutture fonetiche, con ricadute
morfologiche, la cosa
potrebbe
non presentare dubbi: ben più conservativo dovrebbe apparire il
Logudo-
rese
che, p. es., mantiene più salde le vocali atone, non presenta forme
metatetiche
“aberranti”,
né il fenomeno della prostesi vocalica davanti alla R-. D’altra
parte, e per
l’inverso,
il Campidanese presenta la palatalizzazione delle consonanti velari
davanti
a
vocali anteriori, e l’innalzamento delle vocali medie originarie
latine in sillaba finale.
Si
tace in genere, invece, almeno nella manualistica o nelle sintesi
dialettologiche del
Sardo,
sui fatti rispetto ai quali sono i dialetti settentrionali a
risultare maggiormente
innovativi
rispetto ai meridionali: si veda per esempio l’evoluzione QU >
b(b), o CJ/
TJ
> th > t(θ). Né in genere si prendono in considerazione fatti
quali il fenomeno
della
prostesi vocalica di i- davanti al nesso S + consonante , oppure
l’evoluzione
specifica,
in ciascuna delle due macroaree, della -L- latina intervocalica, o
quella del
pronome
ILLUM, quale pronome clitico.
Lasciamo
ovviamente da parte i pregiudizi retorici, che hanno comunque succes-
sivamente
influito, direttamente o indirettamente, sulle riflessioni
scientifiche succes-
1Maurizio
Virdis
sive.
E lasciamo da parte pure il fatto che il codice linguistico usato
nella produzione
letteraria
sarda è stato a lungo nel passato (e in certa misura e in certi
ambiti, ancora
è)
un codice assai spesso basato sul Logudorese. Cosa che ha avuto pur
essa il suo
peso,
dovuta com’è a una serie di ragioni storico culturali della
Sardegna: in specifico
al
fatto che le origini e la successiva riflessione, nonché parte
cospicua della pratica e
della
produzione di scritture letterarie in Sardegna si pongono nella
regione del Logu-
doro
(l’Araolla in primis, poi, p. es., Luca Cubeddu e tanti altri fino
ad Antioco Casula,
e
successivamente le riflessioni del Madao e dello Spano, oltre che
tantissimi poeti),
ciò
che ha ovviamente determinato la scelta del Logudorese quale base del
codice
letterario.
Scelta assai spesso giustificata a posteriori col fatto che, come si
diceva, il
Logudorese
avrebbe mostrato una maggior vicinanza col Latino. Il che ha poi
inge-
nerato
l’idea ingenua e ancora alquanto diffusa, che il Logudorese sia il
‘vero’ Sardo.
Lasciamo
dunque da parte tutto ciò. Le cose vanno viste ovviamente con mag-
gior
duttilità e non in una semplice ottica dicotomica e contrastiva che
piattamente
opponga,
senza alcun rilievo storico e storico-linguistico, conservazione a
innova-
zione,
soprattutto in una dimensione delicata quale quella
diacronico-diatopica della
dialettologia.
Anche perché lo stesso concetto di conservazione o di innovazione
può
essere spesso labile o addirittura ambiguo. Infatti se non ci
limitiamo in maniera
restrittiva
alla dimensione diacronica, ma consideriamo quest’ultima anche in
co-
relazione
con la dimensione diastratica/diafasica, può ben essere possibile,
come
ovvio,
che una variante diacronicamente più antica possa essere, in una
determinata
area,
adottata in un momento relativamente più recente, mentre un dato
linguistico
frutto
di un processo evolutivo relativamente recenziore, può acclimatarsi,
in un’altra
o
nella stessa determinata area, in un momento relativamente più
antico, rispetto alla
scelta,
operata più tardi, magari in una diversa area, di un tratto in sé
maggiormente
conservativo
ma selezionato o impostosi solo seriormente. È insomma, ed ovvia-
mente,
il gioco del prestigio delle diverse varianti sincronicamente
compresenti a
spesso
determinare, sull’asse diacronico, la variazione diatopica.
Inoltre, almeno per
il
caso che ci riguarda — ma credo che la cosa possa certo valere
anche altrove —
esiti
a prima vista ‘aberranti’ o eccentrici rispetto alla base di
partenza latina, e quindi
in
prima istanza classificabili come innovazioni, possono avere alla
base forme ante-
riori,
rispetto ad esiti che, a prima vista maggiormente regolari e prossimi
alla base
di
partenza, possono essere invece frutto di innovazione, o di una
selezione seriore
in
senso conservativo.
È
necessario quindi guardare meglio, con maggiore attenzione e con
atteggia-
mento
di maggior flessibilità ai fenomeni di variazione diatopica del
dominio della
lingua
sarda.
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