giovedì 2 febbraio 2017

Cronodiatopia sarda


Cronodiatopia sarda
Maurizio V irdis
Università degli Studi di Cagliari

in Studi linguistici in onore di Lorenzo Massobrio
a cura di Federica Cugno, Laura Mantovani, Matteo Rivoira, Maria Sabrina Specchia. Torino, Atlante Linguistico Italiano, 2014, pp. 1097- 1110



È ben noto che il dominio linguistico del Sardo ha una fondamentale divisione
diatopica che divide il suo spazio geografico in due metà, l’una settentrionale, l’altra
meridionale.
È chiaro ed ovvio che le isoglosse relative ai duplici esiti delle due macroaree,
come in ogni situazione di diatopia, non coincidono; esse tuttavia, addensandosi
tendenzialmente al centro dell’Isola, tengono comunque un andamento est-ovest che
divide le due metà dello spazio in un’area settentrionale e in un’area meridionale.
Chiameremo le due macroaree, secondo tradizione e per brevità, Campidanese la
meridionale e Logudorese la settentrionale, prescindendo dalla loro coincidenza ri-
spetto alle regioni geografiche e storiche da cui prendono nome: il Campidano e il
Logudoro.
Le ragioni tradizionalmente addotte per spiegare tale bipartizione sono ben anti-
che e possono farsi risalire a posizioni prescientifiche o protoscientifiche relative alla
dialettologia sarda. Su tali ragioni ha pesato, e ancora pesa, il pregiudizio ‘retorico’
consistente nella presunta maggior vicinanza del Logudorese al Latino. E in effetti
se guardiamo a determinate strutture fonetiche, con ricadute morfologiche, la cosa
potrebbe non presentare dubbi: ben più conservativo dovrebbe apparire il Logudo-
rese che, p. es., mantiene più salde le vocali atone, non presenta forme metatetiche
aberranti”, né il fenomeno della prostesi vocalica davanti alla R-. D’altra parte, e per
l’inverso, il Campidanese presenta la palatalizzazione delle consonanti velari davanti
a vocali anteriori, e l’innalzamento delle vocali medie originarie latine in sillaba finale.
Si tace in genere, invece, almeno nella manualistica o nelle sintesi dialettologiche del
Sardo, sui fatti rispetto ai quali sono i dialetti settentrionali a risultare maggiormente
innovativi rispetto ai meridionali: si veda per esempio l’evoluzione QU > b(b), o CJ/
TJ > th > t(θ). Né in genere si prendono in considerazione fatti quali il fenomeno
della prostesi vocalica di i- davanti al nesso S + consonante , oppure l’evoluzione
specifica, in ciascuna delle due macroaree, della -L- latina intervocalica, o quella del
pronome ILLUM, quale pronome clitico.
Lasciamo ovviamente da parte i pregiudizi retorici, che hanno comunque succes-
sivamente influito, direttamente o indirettamente, sulle riflessioni scientifiche succes-
1Maurizio Virdis
sive. E lasciamo da parte pure il fatto che il codice linguistico usato nella produzione
letteraria sarda è stato a lungo nel passato (e in certa misura e in certi ambiti, ancora
è) un codice assai spesso basato sul Logudorese. Cosa che ha avuto pur essa il suo
peso, dovuta com’è a una serie di ragioni storico culturali della Sardegna: in specifico
al fatto che le origini e la successiva riflessione, nonché parte cospicua della pratica e
della produzione di scritture letterarie in Sardegna si pongono nella regione del Logu-
doro (l’Araolla in primis, poi, p. es., Luca Cubeddu e tanti altri fino ad Antioco Casula,
e successivamente le riflessioni del Madao e dello Spano, oltre che tantissimi poeti),
ciò che ha ovviamente determinato la scelta del Logudorese quale base del codice
letterario. Scelta assai spesso giustificata a posteriori col fatto che, come si diceva, il
Logudorese avrebbe mostrato una maggior vicinanza col Latino. Il che ha poi inge-
nerato l’idea ingenua e ancora alquanto diffusa, che il Logudorese sia il ‘vero’ Sardo.
Lasciamo dunque da parte tutto ciò. Le cose vanno viste ovviamente con mag-
gior duttilità e non in una semplice ottica dicotomica e contrastiva che piattamente
opponga, senza alcun rilievo storico e storico-linguistico, conservazione a innova-
zione, soprattutto in una dimensione delicata quale quella diacronico-diatopica della
dialettologia. Anche perché lo stesso concetto di conservazione o di innovazione
può essere spesso labile o addirittura ambiguo. Infatti se non ci limitiamo in maniera
restrittiva alla dimensione diacronica, ma consideriamo quest’ultima anche in co-
relazione con la dimensione diastratica/diafasica, può ben essere possibile, come
ovvio, che una variante diacronicamente più antica possa essere, in una determinata
area, adottata in un momento relativamente più recente, mentre un dato linguistico
frutto di un processo evolutivo relativamente recenziore, può acclimatarsi, in un’altra
o nella stessa determinata area, in un momento relativamente più antico, rispetto alla
scelta, operata più tardi, magari in una diversa area, di un tratto in sé maggiormente
conservativo ma selezionato o impostosi solo seriormente. È insomma, ed ovvia-
mente, il gioco del prestigio delle diverse varianti sincronicamente compresenti a
spesso determinare, sull’asse diacronico, la variazione diatopica. Inoltre, almeno per
il caso che ci riguarda — ma credo che la cosa possa certo valere anche altrove —
esiti a prima vista ‘aberranti’ o eccentrici rispetto alla base di partenza latina, e quindi
in prima istanza classificabili come innovazioni, possono avere alla base forme ante-
riori, rispetto ad esiti che, a prima vista maggiormente regolari e prossimi alla base
di partenza, possono essere invece frutto di innovazione, o di una selezione seriore
in senso conservativo.
È necessario quindi guardare meglio, con maggiore attenzione e con atteggia-
mento di maggior flessibilità ai fenomeni di variazione diatopica del dominio della

lingua sarda.


Nessun commento:

Posta un commento