una poesia metafisica minimalista
di Maurizio Virdis

Poeta della conoscenza metafisica potrebbe esser defini-
to Vindice Satta, forse un poeta della linea montaliana di chi
subisce gli scorni di chi crede/ che la realtà sia quella che si
vede.
In colore d’estate grande
salivamo il monte
alla fonte di Solotti
che vince il sole.
Nel fondo verde della foresta
smarrivamo i passi
dicendo cose che non sono:
dicevamo il vero.
Questa composizione di Vindice può dirsi la cifra del suo
pensiero poetico.
L’ossimoro, apparente, che dire la verità è dire cose che
non sono, definisce il vero come ciò che è extra-reale, a-ogget-
tivo, e a-logico, e che si coglie nell’intrico, nel perdersi in una
foresta e nella sua malia naturale.
Ma certo, benché echi montaliani non manchino nella sua
opera poetica, la poesia di Vindice Satta, più che un distante
ragionare, è un’adesione coerente e lucida al dato sentimenta-
le intimo. Che non è però né si fa mai onda di piena. Anzi si fa
perplessità del dire: del dire proprio tale adesione. Non è la
poesia dell’ineffabile, ma semmai la poesia del limite: del limi-
te della parola; nella cognizione chiara dell’insufficienza di es-
sa: Non ho versi per la tua grazia/ ma parole immaginate, così in Sardegna poesia incipitaria della raccolta Una solitudine;
idea ribadita, nella stessa raccolta, in Terra: Non dirò una pa-
rola,/ debbo immaginare le stelle. Un dire in cui il legame fra
significato e significante è sempre problematico ed eccede il
codice condiviso. Una consapevolezza che si lega strettamen-
te a una ricerca di una misura extra esperienziale che sia al di
là dell’empiria e dell’esistenzialità stretta e immediata, per at-
tingere a una dimensione che non è solo interiore, né tanto
meno ridotta ad intimismo, ma che ha una significativa rile-
vanza poetico morale: ed è eminentemente riflessione della e
nella mente. E illuminazione intuitiva: pensiero nel varco dei
momenti. Un riflettere che poggia certo, ed anzi proprio, sul
dato dell’esistenza soggettiva, ma che la trapassa e la trascen-
de, dando luogo a una misura e a una dimensione, si diceva,
metafisica: non irreale, ma derealizzata; e costruita con gli
stessi mattoni di quel reale che viene scavalcato. La poesia di
Vindice Satta è quella che dice tale valico, tale trascendere,
che puntualizza il (dis)ancoramento di esso (d)alla dimensio-
ne d’esistenza. Lo stesso paesaggio, tanto presente nella sua
scrittura, si scarnifica e si denaturalizza, per diventare strania-
mento psichico e immagine fra iperreale e derealizzata, un
paesaggio che si alloca nell’attività che lo rielabora in forme
concettuali, più che sensoriali. Un paesaggio che ha dei toni
pittorici che si direbbe essere interposti fra Cosmè Tura, Car-
rà e De Chirico.
E al paesaggio è in genere affidata l’immagine della Sarde-
gna, da lui elaborata in mito ed in immagine metafisico-sim-
bolica; si veda Pastore (uSol) 1 , dove sull’erranza scabra del
pastore isolano egli proietta, simbolicamente, il proprio af-
fanno, in assenza di stabile e salvifica memoria, nel silente mu-
tismo anche dei morti:
Nessuna voce di nuovo canto,
l’ovile è chiuso lontano.
Il pastore ha tanche di povertà
e pietre d’affanno
nella polvere di lento gregge.
Un lentischio, un mirto
un’erica:
è grave andare senza meta,
i morti sono immobili.
Come immobili sono i pastori nuoresi di Nuoro (iGQ), sua
città di vita lieta, dove, nella prima sua età, visse felice/ nei len-
tischi intensi a stordire,/ nel cielo come un’alcova. Una Sarde-
gna memoriale, eminentemente, di cui egli ha ricordo fitto co-
me una lama, contro lo sradicamento che costituisce la sua es-
senziale perdurante contingenza di uomo; di un uomo il cui
più vero essere, ora perduto, sta e si proietta, egli dice, nel pas-
sato di giovani valenti,/ di madri sagge di consiglio, di uomini
che portano/ fatica come vanto, uomini che non hanno rim-
pianto perché solo chi non ha avuto gioia non ha rimpianto:
fra paesaggio fisico e paesaggio antropologico, psichico e del-
la memoria. Memorialità ribadita in Cala Gonone (iGQ), lon-
tano da cui egli ha vissuto anni [...] d’amore e d’ira. Una Sar-
degna madre dolceamara, come il suo amaro miele, frutto di
api che suggono nettare dalle pietre/ nella morte dei fiori, nel-
l’Isola dei mandorli (iGQ), metafora di sradicamento esisten-
ziale, dolce al ricordo, amara all’attualità dell’esistenza; ra-
gion per cui altro non resta che sognare la tanca che è madre,
nel cui silenzio solo si può udire la verità (La tanca, iGQ). Una
madre la cui vita è sempre stata per lui una prigione, uterina e
cagione di claustrofobia si direbbe, una madre che è stata una
notte che gli ha sempre chiuso il tempo, che ha vissuto in una
solitudine tale che da lei gli è stata impressa in stigma (Una so-
litudine, uSol). Una madre che, distratta dal dolore, lo lasciò,
pur con carezza, su una pietra che ora, nell’abbandono, sta
sopra di lui e lo schiaccia: e fu “il giorno qualunque” (Il giorno
qualunque, iGQ), quello che iniziò, anzi intitolò il suo canto.
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Da qui in avanti si abbrevia con uSol la raccolta Una solitudine e con iGQ
la raccolta Il giorno qualunque.
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